Resoconti

Ischia…Ci vorrebbero parole nuove….

Quando guardo il mare, là in fondo, dove cielo e acqua si uniscono, ho sempre un Po di inquietudine. Gli antichi immaginavano che là in fondo ci fosse la fine del mondo, gli inferi, il nulla, credo che era davvero difficile per loro pensare che potesse esistere qualcosa al di fuori di loro e quindi guardavano quella linea sottile e lontana come un orizzonte di mistero, come qualcosa in cui tutto scompariva o si rovesciava, rovesciando il senso delle cose e lasciando solo agli dei la possibilità di dominare gli elementi naturali.
Anch’io quando guardo, nel mio essere semplicemente umano, vedo ciò che vedo e in fondo al mare vedo il nulla e davanti al nulla mi viene da fermarmi, cambiare strada, cercare qualcosa di solido anche se sconosciuto.
Ora sappiamo bene che là in fondo c’è ancora qualcosa, c’è un nuovo continente, una nuova popolazione oppure un popolo fratello, una nuova vita, ma sentirmi li in mezzo a quella immensità d’acqua senza vedere una sponda, mi disorienta, mi fa sentire perso e sperso dentro la mia stessa esistenza.
Oggi però, sempre più, un’amica che ama profondamente il mare, mi sta insegnando che il mare bisogna navigarlo, che le onde sono come braccia protese in un abbraccio, che bisogna sorridere al mare quando è allegro e le sue onde sono in preda alla propria esuberanza e anche che, quando il mare è davvero arrabbiato, non lo fa per punire chi lo sta navigando, ma perchè qualcosa o qualcuno ne scompiglia l’eterno soffio di amicizia che lo pervade, costringendolo a qualcosa che non vorrebbe essere.
Navigare il mare è un andare avanti, oggi lo sò, nonostante questo mi fa ancora paura, ma lo so e cresce la mia stima verso chi lo fa, verso chi affronta una nuova barriera dell’ignoto, ieri esistevano i sestanti, oggi le bussole; ieri le navi erano improbabili gusci di legno, oggi moderne città galleggianti; cerchiamo di conoscere il mare e di offrirci a lui aiutandolo a non farci del male quando non può trattenere la sua forza, così come si dovrebbe fare in un bosco davanti ad un animale selvatico, cosi come si dovrebbe fare nella vita davanti alle sue inevitabili asperità, così come si fa davanti al dolore nelle sue inevitabili manifestazioni.
Conoscere, conoscere il più possibile, senza sfuggire, senza evitare, per affrontare ciò che è inevitabile e dare a noi stessi ogni cosa che fa parte dell’esigenza umana, anche se per farlo dobbiamo pagare un prezzo, il prezzo del vivere una vita che non è una tavola liscia come il mare quando gioca con un vento amico, una vita che è tutt’altro… per darci ciò che ci serve e che ci aspetta, mangiare, dormire, darci e dare affetto e affettuosità, vivere appieno i nostri sentimenti, giocare,sognare, grattarsi…
E allora ho navigato, un piccolo mare, un mare che mi rassicurava perchè da qualche parte mi faceva sempre vedere una sponda, l’ho fatto in attesa prima o poi di navigare l’infinito, ora so che da qualche parte si arriva, oppure contro l’infinito andrò a sbattere se non saprò imparare a conoscere una bussola, a guardare le stelle, a parlare con la luna e ad ascoltare i suoi pensieri.
E’ bello stare su un’isola, ti senti al sicuro e fuori dal mondo, è certamente solo un’illusione, ma è bello viverla per quanto si riesce a farlo.
Senti di aver portato il tuo mondoaparte in una altro mondoaparte, il tuo mondoaparte è fatto di te e di chi ti riconosce e con te diventa un essere soli insieme, quello dell’isola è un’altra cosa, più fisica, ma è sempre qualcosa che aiuta a staccarsi dalla realtà, che dice agli altri: se mi vuoi, vienimi a cercare.
Con gli improbabili bus dell’Isola raggiungiamo il nostro albergo, i bus qui sono il primo impatto con il mondoaparte fisico dell’isola.
Siamo qui per Claudio e ogni cosa ne tiene conto, anche se cerchiamo di conoscere il più possibile l’isola, ogni piccola divagazione sui programmi “turistici” è qualcosa che diventa in funzione di Claudio. Dove canterà, cosa faremo quella sera? Dove mangeremo? A quale cielo rivolgeremo i nostri sguardi pieni della sua musica e del suo incanto, se incanto ci sarà?
Per due giorni e per due notti la nostra casa è l’albergo, capita così quando sei via, quello è il posto dove ritornare per quel tempo, ed è bello quando ritornare fra quelle mura è qualcosa di piacevole, rassicurante, come è stato in quell’albergo-casa. I colori tenui che trovi dappertutto, sui muri e sui mobili, sui tubi di scarico delle grondaie e sui tubi dei fili elettrici che scorrono sui muri, rosa e verde acqua sopratutto. Gli angoli appartati e discreti, un balconcino in camera che non ha una gran bella vista, ma che lascia un senso di raccolto e che la notte quando guardi le stelle è un angolo di sogno dove sembra che esisti solo tu. I silenzi, i profumi dei corridoi e una camera che è un piccolo nido, il regalo di una piccola, minuscola piscina con vasca idromassaggio che sembrava fatta per rassicurarmi dalle mie paure delle profondità marine. Poi accorgersi quasi con stupore che non era solo per noi, ma che era di tutti, già, nel momento in cui ci siamo stati sembrava che la gente non esisteva più, forse , ancora meglio, che la gente non ne conoscesse l’esistenza e che quella era una vasca segreta, scoperta dopo chissà quale avventura.
Tutti abbiamo una nostra casa, quella di ogni giorno, poi abbiamo le camere dei nostri viaggi, le camere d’albergo o di ciò che ci ha permesso di vivere tempi belli, sono piene di emozioni e quando vai via e ne lasci qualcuna delle tue, sembra che nessun’altra potrà occuparla, come se quel guscio di mondo rimarrà tuo per sempre con quello che di te contiene.
Così, nel nostro tempo di vita sull’isola, dopo un’avventura tragicomica (più tragica che comica) sugli autobus, accompagnati da qual meraviglioso senso di avventura che sempre ci pervade, con le ruote di una amicizia intensa e sostanziale in cerca di nuovi approdi e che va cercando nuove rotte, arriviamo a Negombo e cominciamo a conoscerlo.
La sera del concerto siamo ormai padroni del posto, ormai ci destreggiamo bene, sappiamo dove aspettare nella tranquillità, sappiamo dove andare per andare incontro ad una serata che speriamo sia magica.. e poco dopo si spacca il guscio dell’attesa ed esce il nocciolo del sogno, dell’incanto.
Claudio sul palco, si vede subito che è in forma smagliante, un sorriso di chi si sente pronto, quella sua strana faccia con il protendere le labbra che mi fa tanta simpatia e che me lo fa vedere un pò cialtrone e un pò aquilonista… tutt’altro che pederasta… e una voce che già alla seconda canzone si è scaldata ed esce potente, modulata, piena di armonie, invadente il cuore e l’anima, la pancia e gli occhi.
Non chiedetemi la scaletta, non la ricordo, ricordo solo le emozioni e il loro crescendo, ricordo solo la voglia di salire sul palco e dargli una pacca sulla spalla per dirgli: ce l’hai fatta ancora una volta a stupire tutti oltre ogni aspettativa.
Qualche canzone da solo, fra le quali “tutto l’amore che posso”, brano che fa vibrare l’anima, poi la difficilissima “dieci dita” cantata senza le solite incertezze con un falsetto che sta diventando sempre più parte particolare del brano, poi sale sul palco Danilo Rea, quando la classe immensa di Claudio incontra la classe immensa di Danilo, sembra che gli alberi al lato del palco si pieghino un poco per vedere cosa succede, le luci li illuminano e loro si vergognano un pò nel farsi vedere curiosi.
Con Danilo inizia con un omaggio al mare, mare che è suo padre e sua madre, mare di cui qui si sente tutto il carattere e la vita che regala, riempiendo ogni attimo dei giorni di quest’isola, di lavoro, di bellezza, di eterna speranza di futuro.
Ma qui è anche il carattere napoletano che impregna l’aria, chissà, forse qualcosa nei soliti campanilismi a volte crea differenze, differenze che si dissolvono nella bellezza di una canzone e allora tutti si sentono Napoletani, gli Ischitani, i campani in genere, fino a chi arriva dal nord Italia e dal profondo sud… siamo un pò tutti napoletani quando Claudio omaggia quella città assieme a Danilo. La sciantosa Reginella, canzone di Libero Bovio, oggetto di un amore finito che torna qualche volta distrattamente in testa, abbraccia la Reginella di Claudio, sorella nella bellezza e sorella nella storia di un amore finito che naviga un mare di struggimento e di nostalgia, Reginella che non era di Napoli, ma che napoletana lo era senza esserci mai stata, così come nel nostro vivere la vita con certe sensibilità e certe visioni, ci faceva baglioniani prima di conoscere Claudio. Se avessimo guardato il tappeto d’onde del mare, avremmo scorto le nostre due reginelle andare via per mano in una danza leggera sul ritmo delle onde, cercando insieme un re che dicono se ne sia andato via, camminando in fondo al mare.
Ed è sempre il mare, che bagnava gli occhi e li riempiva di sale mentre partivano i bastimenti, lasciando sulla riva fazzoletti bianchi in volo, sempre il mare che apriva le porte di mondi lontani, pieni di fatica da sputare nelle mani, di umiliazioni e di dignità da cercare e affermare, quel mare che divideva da una “Santa Lucia lontana” che sapeva di dialetti qui sconosciuti dai locali, di calore, di profumo di glicine e di limone, di abbracci lasciati lontani.
In certi momenti rimanevo li, con gli occhi fermi su quel palco, incollati a quell’uomo che ci faceva volare dal cuore alle stelle un pensiero che ha sempre l’amore come denominatore comune, l’amore per ciò che abbiamo intorno e intorno abbiamo la vita e ciò che contiene, ciò che tenevamo per mano e ciò che tenevamo nel pensiero.
Una vibrazione immensa, un’onda vocale con mille spumeggianti flutti, lingue d’acqua come fluido d’emozioni che si spingevano sulle spiagge e negli anfratti delle rocce che ancora conserva ogni cuore, armonie inaspettate e apparentemente avulse dal tema musicale principale che correvano in ogni dove, fuggendo da dove erano partite, per poi tornare a riprenderlo rassicurandolo, dicendogli che niente di lui, radice musicale, era andata perduta. Erano la voce e le dita di Claudio e Danilo, voli che sembravano improbabili, ma che finivano sempre in un loro nido, fra gli alberi o sulle rocce.
Sale sul palco un gruppo che mi è sconosciuto, scoprirò in questa serata che sono musicisti davvero di grande spessore, il Calandra Jazz trio. Non conosco molto di jazz, non lo amo in tutte le sue forme, ma avendo come base le canzoni di Claudio, credo siano costretti a delle improvvisazioni che mantengono questa forma musicale nella sua accezione più “calda”, anche Claudio modula la sua voce e i suoi tempi su quelli del Jazz e a volte ho l’impressione che la musica provochi Claudio in espressioni vocali inaspettate anche per lui, a volte mi sembra sia Claudio a scatenare la musica in un inseguimento frenetico dei suoi slanci vocali, una gara, una bellissima gara davvero.
C’è il gusto reciproco nella ricerca reciproca della altrui bellezza che sia stata prodotta, così il trio jazz chiede a Claudio di eseguire “Quei due”, pezzo da loro amato molto e Claudio, leggendo il testo, li ringrazia a suo modo con una bellissima interpretazione sui ritmi, strani per quel brano, di jazz.
E’ stato bello anche per noi ascoltare brani che non si sentono spesso, sentire che esistono ancora nelle corde di chi li ha creati.
Ci sono diversi omaggi ad altri artisti, da Bindi a De Andrè, fino ai Beatles. Grandi artisti da tenere stretti a sè e anche se non tutto ciò che hanno fatto l’ho capito da solo, l’arte di Claudio mi ha aiutato a trovare una chiave di lettura che, almeno in qualche parte, me ne ha fatto conoscere di più le profondità.
Ora Bindi per me tornerà nell’oblio, I Beatles hanno la mia stima, ma non so una parola di inglese e per me i testi sono basilari, De Andrà è sempre stato e sempre rimarrà per me un artista e un poeta davvero geniale.
Ci sono stelle da guardare in cielo e viene il dubbio che siano anche loro a guardare giù, noi a cercare una di loro, loro a cercare uno o una di noi… intanto le stelle del repertorio di Claudio si snocciolano in continuazione, ognuno di noi ha qualcosa di suo da ascoltare in modo particolare, ognuno ha una sua canzone, un ritmo, un canto, atteso da chissà quanto con qualcuno con cui ci si è promessi indivisibili… tamburi lontani che suonano per noi, dentro di noi, accanto a noi… lontani ma mai lontani dal cuore dopo che ci sono entrati in tempi vicini o lontani. Suoni di un passato, o di una speranza di futuro.
E lassù, fra le stelle, quel suono di tamburo si sarà sentito benissimo e Mimì, fra le nuvole, avrà cantato uno stanco, ma struggente e bellissimo jazz sullo sgabello, accompagnando la voce dolcemente ispirata di Claudio, soffiando nel suo microfono di nuvole, suoni d’uccello.
Claudio sempre più ispirato, sempre più istrionico, sempre più divertito, provoca la naturale ammirazione dei musicisti che sono con lui sul palco, ed è bello guardare il contrabbassista dei Calandra cantare con impegno le canzoni, quando la concentrazione che chiede il suo strumento gli permette di farlo.
Passa il tempo, passa la musica, passano brani bellissimi spinti in su verso la volta del cielo dalla voce di Claudio, che anziché stancarsi sembra trovare sempre più calore ed energia con il passare delle note, passa la meraviglia negli occhi e nel cuore, ma rimane nel ricordo e nella consapevolezza di essere al centro di un miracolo musicale, roba da angeli, roba da usare come musica di sottofondo per il paradiso… sembra impossibile che proprio a me, a te, a voi, sia successo di essere lì.
Un bellissimo finale corale, tutti sul palco con una apoteosi di pianoforti a suonare “via” e poi “mille giorni di te e di me” con l’aggiunta di Paolo Fresu alla tromba che suona il tema di solito suonato al pianoforte, per spingersi poi in qualche avventura che costringe Claudio a galleggiare con mestiere su note che mi sono sembrate un pò dissonanti, ma quella tromba era bellissima… e molto jazz.
Una scaletta diversa, particolare, sicuramente non casuale nei suoi omaggi a Napoli, a Mima, al mare, a noi e a sè stesso, ma sopratutto alla musica, una scaletta davvero al servizio della musica e certamente non viceversa.
E’ finita, si spengono le luci di scena sul palco e si accendono quelle sul pubblico, quelle che portano via… ci si guarda intorno stupiti, consapevoli di aver assistito a qualcosa che non ci saremmo mai aspettati, a qualcosa che sarà ben difficile ripetere perchè tanto virtuosismo si può ripetere , ma non nella stessa identica forma, quando si è a questi livelli ci si può eguagliare, anche superare, ma mai essere due volte uguali, questo è il jazz, queste sono le vicende che la vita ci propone quando vuoi cambiare le sue storie.
Questa è stata una serata di magia, di stelle e di mare, di musica scintillante come le stelle, intensa come l’eterno moto del mare, imprevedibile come il vento, e mi rendo conto che non ho parole per descrivere tanta bellezza, allora rubo un’espressione ad un amica: “Ci vorrebbero parole nuove, bisognerebbe inventarle!”
La notte è ancora giovane, si allungano i passi sulla strada, gli occhi inseguono luci lontane per volare via e si rassicurano in occhi vicini, conosciamo un angolo dove perderci nei pensieri e dove pensare insieme e lì, con le mani come un ponte che collega due storie che non sanno trovare un unico finale, indugiamo cercando di fermare il tempo. A quel tempo ho fatto un sorriso, gli ho donato un mazzo di stelle, un profumo di rosmarino, cime di alberi che giocavano con lui, tutto per fargli piacere o anche soltanto per fargli un pò pena… perchè la bellezza della storia che stavo vivendo si fermasse li, sotto le stelle che abbiamo guardato insieme cercando la nostra e sperando che il tempo ci mandasse un domani che non fosse un tempo troppo diverso e incerto, di nuvole, fumo e nebbia..

Renato

redazione

La redazione di doremifasol.org e saltasullavita.com è composta da tanti amici ed appassionati della musica di Claudio Baglioni, coordinati dal fondatore e amministratore Tony Assante. Un grazie a loro per il lavoro e l'aiuto apportato a questo portale - Per scrivere alla redazione usare wop@doremifasol.org

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