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Testo articolo La Lettura 01\11\2015

Corriere_INTERNOSLe parolacce, le risate, le corse e poi tu mia/ se fossi un altro uomo direi: poesia», cantava Battisti in Questo inferno rosa. Ecco: per dire se davvero i testi di canzone possano essere definiti poesia, bisognerebbe mettersi bene d’accordo su cosa s’intenda per poesia. La questione, non a caso, rimane aperta da oltre cinquant’anni. Con qualche piccola certezza, però. La prima è che ormai, dal punto di vista dei consumi culturali, la canzone rappresenta senz’altro un surrogato della poesia. Come scriveva Pier Vittorio Tondelli, «il bisogno di poesia, bisogno assoluto e struggente negli anni della prima giovinezza, è stato soddisfatto da intere generazioni mandando a memoria parole e strofe di canzoni».
La seconda è che, dal punto di vista di chi le scrive e le canta, le canzoni restano altro dalla poesia. Non si spiegherebbero altrimenti i libri in versi pubblicati negli ultimi anni da autori come Mogol, Ligabue, Morgan, e ora Baglioni. Il suo Inter nos, in uscita per Bompiani, raccoglie i pensieri postati dal 2010 nella sua pagina Facebook: nella «forma/ con cui si distingue la grafica lirica/ dalla prosa continua /ma che non pretende d’essere poesia/ seppure in cuor suo l’amerebbe/ almeno in qualche passaggio».
La terza — e più salda — certezza è che, di là da ogni considerazione di merito, canzone e poesia condividono una serie di aspetti tecnici legati alla lingua e allo stile.

Mattini freschi di biciclette

Anche Baglioni, a modo suo, è stato ermetico. Come quando cantava mattini freschi di biciclette, amori di vernice sui muri o natale di agrifoglio e candeline rosse. Ovvero usava il di per creare formule simili a quelle che il filologo Gianfranco Contini definì «sintagmi impressionistici »: un po’ come Pascoli (un nero di nubi), come Ungaretti (Allegria di naufragi), come Luzi (la tua mano inane d’universo).
Ma nelle canzoni di Baglioni si possono trovare anche altri tratti fra quelli che un altro filologo, Pier Vincenzo Mengaldo, considera caratteristici della «grammatica ermetica». La frequente omissione dell’articolo, per esempio, o la preferenza per il plurale rispetto al singolare: «cieli smarginati di speranza/ e di silenzi da ascoltare». O la continua commistione tra astratto e concreto: «una fame di sorrisi e braccia intorno a me», «avrai ricordi ombrelli e chiavi da scordare».
Tutti tratti che si ritrovano anche in queste «note appuntate un po’ ovunque».
Note senza note che spesso ripropongono gli stessi accordi: una «bonaccia di nebbie» e un «cielo da lavarci la faccia», «un crepuscolo di braci e poesia» e «un brivido arancio di pelle e pensieri».
Certo: sono tratti che si trovano anche in tanti altri testi italiani, soprattutto a partire dagli anni Ottanta. Perché, per vie che è difficile ricostruire, quella grammatica poetica diventa a un certo punto la base della nuova grammatica canzonettistica.
Dalle ceneri di Quasimodo nasce il nuovo standard dei testi di canzone (ed è subito musica). Ma, per certi versi, Baglioni è stato il primo.

E le canzoni stonate urlate al cielo lassù

Anche Baglioni, a modo suo, è stato profetico. Già nel 1972, infatti, la sua Questo piccolo grande amore si presentava come un perfetto esempio di poesia pop-orale. Con quella sua sintassi quasi parlata («quell’aria da bambina/ che non gliel’ho detto mai/ mai io ci andavo matto»), con quel suo lessico quasi giovanile («mi diceva sei una frana, ma io questa cosa qui mica l’ho mai creduta»).
Con la definitiva rinuncia a inversioni e troncamenti, e a tutto l’armamentario di artifici che appesantiva il vecchio canzonettese.
Un vero manifesto: in anticipo persino sul comune senso del pudore, se è vero che — come si sente ancora in certe versioni televisive — la censura impose di cambiare «la paura e la voglia di essere nudi» in «la paura e la voglia di essere soli» e «mani sempre più ansiose di cose proibite» in «mani sempre più ansiose, le scarpe bagnate». (Fino a quel momento, in effetti, nudi di donna o di uomo non s’erano ancora affacciati alla hit parade dei singoli. Nel 1960, il 45 giri di Modugno che aveva come lato A Libero e come lato B Nuda venne ritirato subito dopo l’uscita e ripubblicato poco dopo, coprendo il lato B con la casta Più sola).
D’altro canto, scrive ora Baglioni: «Sono quarantaquattr’anni/ che m’impicco tra prosa e poesia». Poi spiega che se alla prosa si tolgono i nessi logici, «quello che resta è poesia. Ellittica./ Fantasmagorica. Vertiginosa».

Dall’alba al tramonto. E viceversa

Anche in questi post, a modo suo, Baglioni prova a essere poetico. Finalmente libero da quei vincoli che la musica impone, come lui stesso ricordava qualche anno fa di fronte a una platea di studenti: «L’italiano è del tutto inadatto a essere cantato e basta guardarsi i libretti d’opera per convincersi di certe complicazioni ». Solo che senza la musica, senza il ritmo della mascherina metrica, senza il rito del ritornello, le sue note tendono a perdere il tono. Anche se la musica torna a tratti, tematizzata o evocata tramite autocitazioni: «Ieri sera ascoltavo un chitarrista suonare/ con dita e cuore la sua musica/ fatta di musiche sue/ e dietro il Tevere che andava lento lento»; oppure: «“La mia vita è un’autostrada”/ cantavo nel 1970./ Non è cambiato poi tanto».
E invece è cambiato eccome. Tanto che adesso la sua scrittura s’impenna a volte in tòpoi classici come l’ubi sunt («Quanto tempo passato? E dove sono andati tutti?/ E cosa rimasto? Chi siamo diventati? »), altre volte si adagia in una colloquialità fin troppo quotidiana («quelle robe/ tipo mostri preistorici»; «gli deve piacere un casino/ perché va avanti così da un bel po’»). Che il vecchio Tu come stai? viene rideclinato in un dialogo social pieno di interrogative retoriche (tra i vari incipit: «Ma lì com’è?», «Ma che cielo c’è questa notte?!», «Ma quanto è bello questo vento di oggi?!»), mentre la cadenza diaristica impone un continuo riferimento all’oggi: «L’esistenza è una fila lunghissima di tanti oggi./ Uno dietro l’altro». Così, il «giorno nuovo» e la «notte di note» si alternano in un continuo susseguirsi di albe e ancor più di tramonti che ricordano la copertina di Sabato pomeriggio.
«Dall’alba al tramonto/ c’è il tempo del dire e del fare./ Dal tramonto in poi, fino all’alba/ il tempo di baciare/ e, in silenzio, di scrivere lettere,/ di far testamenti dei giorni passati/ o, nel buio, di stringere i sogni/ di quegli altri a venire ». Ecco: se il messaggio di Inter nos voleva essere il carpe diem, la celebrazione dell’hic et nunc, perché fugit irreparabile tempus, allora forse sarebbe stato meglio cantare forte e chiaro che La vita è adesso.

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2 Commenti

  1. io credo che il meglio di se lui lo da quando descrive “a parole sue” segmenti di vita quotidiana ad esempio nel sole nel sale e tante altre

  2. Ermetismo……..
    Citero’ titoli di canzoni e non versi perché i testi di Claudio sono straordinari basta chiudere gli occhi e come un film lui riesce con precise e originalissime metafore a farti vedere ciò che lui sta vedendo in quella canzone : le ragazze dell’Est/tutto il calcio minuto per minuto/ i vecchi stupenda un tema difficilissimo eppure ascolti quella canzone ed è come bere un bicchire di acqua freschissima in una giornata afosa. E si può continuare ancora questa non è solo arte poesia è magia.

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