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Claudio Baglioni – 2000 Manierismo e ricorsività

La puntata di questa settimana di Stasera a casa di Luca non è uscita come di consueto di lunedì per miei impegni personali di questa settimana, che mi hanno reso impossibile la pubblicazione regolare della rubrica.

Questa è l’ultima puntata dedicata all’analisi della produzione dei testi di Baglioni suddivisa per periodi, poi la rubrica tornerà ad occuparsi dell’attualità di Claudio.

Questa volta affrontiamo gli anni Duemila, che non sono un decennio, bensì quasi un ventennio, ma che, vista la bassa produzione di inediti, e alcune caratteristiche in comune, è possibile poter raccorpare.

La critica ha piuttosto stroncato i due album di inediti del periodo, Sono io e Con voi, criticandone aspramente i testi, considerati spesso una ripetizione iconica degli stessi elementi, e giudicandoli privi di contenuti di spessore, scritti in uno stile piuttosto insignificante. Qualche altro critico ha parlato di dischi pop, in netta contrapposizione al Baglioni d’autore, che ha scritto brani dal 1975 al 1999; altri invece si sono limitati ad affermare che non sono gli album migliori della produzione baglioniana. Personalmente, mi allontano da qualunque giudizio di valore (in questa rubrica mi sono occupato di analisi del testo, valutando soltando la compiutezza di alcune costruzioni formali, senza parlare mai di “belle o brutte canzoni”); ritengo però che la netta divisione, messa in atto da tanta critica, tra canzone d’autore e pop, in realtà non sia per niente così netta, e cercherò di dimostrarlo analizzando le tematiche di questi due album, molto coerenti con tutta la produzione del Baglioni più “d’autore”. È in dubbio però che in questi anni emergono differenze rispetto a lingua e stile degli anni precedenti, e si denota una riproduzione piuttosto iconica di diversi elementi. Andiamo ad analizzarli nel dettaglio.

Figli unici

Con questa dicitura raccolgo tutti i singoli pubblicati tra gli anni ’90 e gli anni Duemila, che non hanno trovato spazio in album di inediti, se non in casi particolari (come Buon viaggio della vita, uscito come singolo nel 2007, e poi inserito nel 2009 in QPGA, e Niente più, singolo proprio di QPGA). Troviamo brani molto iconici, come per esempio Crescendo e cercando, caratterizzato da un tono epico ed enfatico un po’ fine a sé stesso, in cui manca un obiettivo ben preciso; il testo è pieno di zeppe, ossia parole messe per riempire le note musicali, ed inoltre le immagini non hanno un preciso significato («e così crescendo e cercando / via dove, domani o quando / prenderemo insieme la scia / nel tempo della fantasia», versi del genere hanno un grado di informatività vicino allo zero). Questa prima grande caratteristica si associa ad un’altra caratteristica di questo ventennio, più interessante, ossia la ripresa di immagini già usate in carriera, una sorta di tecnica di autocitazione. Questa tecnica è usata in Niente più, brano che nasce proprio da una tessera linguistica di Questo piccolo grande amore («niente più / di questo, niente più»), ma è ancora più efficace in Tutti qui, in cui ritornano immagini di Cuore d’aliante, ’51 Montesacro, Acqua dalla luna, La vita è adesso, Il sogno è sempre, e anche altri (non a caso i brani rievocati sono tutti molto autobiografici): questa canzone è particolarmente significativa proprio perché è il singolo della prima antologia ufficiale della carriera. Oltre quindi a tono epico ed enfatico senza obiettivo, il ripetersi di immagini iconiche diventa finalizzato ad esprimere un aspetto della propria poetica.

Sono io

Baglioni ha annunciato quest’album come un’occasione per «voltare pagina rispetto ad una lunga stagione di dischi complessi […], cercando un linguaggio più immediato», realizzando così un «disco di canzoni d’amore […], una parola che ultimamente avev[a] faticato ad usare». Già i primi versi di Sono io annunciano uno stile diverso. Via l’evocazione, via l’alto grado di figuratività, via la sintassi nominale, via i tratti della grammatica ermetica: ritorna la narrazione in prima persona, che assume i tratti di una confessione, infarcita però dalle zeppe del classico canzonettese («non so, forse no») e da metafore “spente”, prive di pregnanza semantica («fiumi di pianto», «mare aperto»). Sembrerebbe davvero che Baglioni, dopo la trilogia, sia quasi rimasto senza forze, e voglia volutamente dichiarare da subito un approccio compositivo completamente differente. In realtà, proseguendo nell’ascolto del brano, notiamo che pervade ancora un certo autobiografismo, che appare come reale, e quindi non iconico («chiedo perdono / se non so chi sono io / che è già da tanto che suono»), fino a che compare il titolo e sottotitolo dell’album, «l’uomo della storia accanto sono io», vero cuore tematico di tutto il disco.

Questi tratti ora evidenziati per la title track si possono riscontrare in tutto l’album. Diverse sono le zeppe, che non si rifanno né ad una dialogicità pragmatica, né quantomeno alla dimensione di oralità («e buttare lì / a casaccio un che di diverso / uno scherzo, sì», Tutto in un abbraccio è la classica zeppa aggiunta per far tornare il conto della mascherina musicale; «io sì che mi innamorai / sempre più di te», Tienimi con te; «più in alto, sì, / di tutto quanto puoi», Requiem) anzi, che non aggiungono contenuti informativi al testo, facendolo risuonare piuttosto ridondante o ripetitivo («là / dove il vento va / aldilà / oltre la realtà», Di là dal ponte – da notare la presenza dietro fila di quattro tronche in clausola), come accade per esempio nella prima strofa di Sulla via di casa mia, in cui fondamentalmente il contenuto informativo è pari a zero («io che sono / stato sempre altrove / non so dove / di continuo via / su strade nuove / ma tu sei il mio nord / l’est il sud e l’ovest»); tantissime le metafore spente prive di profondità figurale («tienimi con te / dentro questa vita / chiudi ogni via d’uscita / per restarmi più vicina», Tienimi con te; «io che parlo / sempre molto poco / non è un gioco / farmi compagnia», Sulla via di casa mia;  «perché domani avesse un cielo più profondo», Grand’uomo; «sulle labbra dure di ghiaccio / morire un po’», Tutto in un abbraccio, l’uso metaforico di “morire” è tipico del primo canzonettese, e ovviamente non denota la morte reale, ma una morte simbolica). Laddove Baglioni aveva maturato accostamenti originali e figuratività analogica o metaforica, qui le espressioni sono piuttosto vuote. Ritorna prepotente l’allocuzione amorosa al tu dell’amata, a cui Baglioni si rivolge in otto brani su tredici (particolari l’allocuzione al figlio in Grand’uomo, e quella al padre in Patapàn), mentre la difficoltà nel creare figuratività si può notare nella mancata parestesia con zeugma di Tutto in un abbraccio («il sole / taglia il mare e il nostro amore in due / come un aratro»), dove resta lo zeugma, con il verbo taglia che regge due oggetti, nessuno dei due compatibile semanticamente con il verbo reggente, e la polisemia verbale risulta piuttosto insignificante (si confronti per esempio un’altra immagine che ha per soggetto sempre il sole, in Un nuovo giorno, un giorno nuovo, 1985: «bentornato a questo sole […] quando allaga letti e cuori», in cui il verbo allagare rende l’immagine del sole che dalle finestre invade, “trasbordante come un fiume”, i letti e le persone coricate, richiamate dalla metonimia dei cuori). Giunti a questo punto, è più che lecito chiedersi se l’evoluzione linguistica di Baglioni abbia qui subito una pesante battuta d’arresto. Da un certo punto di vista è certamente così, ma da un’analisi più attenta, scopriamo però che in realtà almeno due elementi sono ancora collegabili al resto della produzione del Nostro: una capacità nell’usare parole e significati, non soltanto manieristica (come vedremo tra poco), che si manifesta in alcune costruzioni ancora piuttosto originali, e soprattutto un fil rouge tematico legato al resto della produzione.

Nella capacità di usare parole e significati rientra la scanzonatissima Serenata in sol, ma anche il capolavoro formale di Quei due, tra i brani più interessanti di tutta la produzione di Baglioni. Tema è ancora una volta la messa in scena di un addio d’amore, raccontato con uno stile fortemente cinematografico che descrive i due protagonisti, in fila per pagare un conto, verosimilmente ad una cassa («e tutto sembra uguale a sempre / e intanto / i due li accanto / sono quasi al conto»); la locuzione «uguale a sempre» sottolinea l’abitudine dell’azione, mentre l’immagine della cassa è molto cara a Baglioni (già usata in Tamburi lontani, 1990). La situazione ha anche una valenza metaforica, anche se lo si deduce solo proseguendo l’ascolto: il “conto” è una sorta di resa dei conti, di bilancio della storia d’amore che si sta per concludere. La strofa è costruita con uno schema A1 – A2; B1 – B2 (con A e B si indicano due momenti musicali differenti); dopo la seconda strofa compare come cerniera un momento C, che poi si apre sul ritornello, con parole differenti nelle due occorrenze. Nelle varie occorrenze di A1 troviamo sempre un’osservazione aforistica sull’amore (l’aforismo è molto persente nei testi degli anni Duemila), mentre in A2, B1 e B2 si alternano descrizioni molto dettagliate di lui e lei (alternate sia nella stessa strofa, che tra strofe differenti). L’unica parola completamente isolata dal tessuto delle rime, molto fitte in tutto il testo, sono quiz e amore, che è una vera parola-rima, perché anche nel ritornello rima solo con sé stessa, in netto contrasto con quanto avviene nel canzonettese più classico (che viene anche semantizzato nell’incipit di questa strofa, «cuore e amore qui non fanno rima»): la crisi dei due amanti viene quindi preannunciata anche nella forma. Non mi soffermo, per motivi di spazio, su altri bani molto significativi, come Requiem e Patapàn. Merita invece una menzione Di là dal ponte: nonostante la semplicità del linguaggio, la ricorsività iconica delle immagini che si ripetono, e in generale un abbassamento stilistico e linguistico, Baglioni qui riesce, ancora una volta, ad essere profondamente coerente con il suo canzoniere. Alcuni versi di questo brano, di forte impianto aforistico, possono chiarificare questa semplice ma intensa riflessione di Sono io: ogni io appartiene ad una storia, una storia del mondo, per cui non ha senso farsi la guerra, ma avrebbe senso un mondo con meno ingiustizie («su una terra di nessuno / siamo ombre di un secondo / e il mondo non è di qualcuno / perché il mondo è tutti noi»).

Con voi

Quest’album, per motivazioni molto note ai fan, e per volontà dello stesso Baglioni, non va valutato come unicum: i suoi brani vanno considerati come singoli, completamente svincolati l’uno dall’altro. In effetti, è impossibile trovare in Con voi una chiave di lettura globale (come invece si poteva fare ancora in Sono io): l’album si presenta come una sorta di sommario di tutte le fasi compositive di Baglioni, un riassunto di tutto il percorso fatto fino ad ora, che ha il suo polo d’attrazione nel singolo, il brano più potente di tutto l’album.

Dal punto di vista linguistico, i testi dell’album si caratterizzano per un manierismo spiccatamente barocco, portato all’ennesima potenza rispetto a Sono io. A dimostrazione di questo, basterebbe anche solo citare le diverse occorrenze di figure che struffano la polisemia verbale e aggettivale [per polilsemia si intendono due parole uguali, ma che hanno significato diverso, come sole, aggettivo plurale, oppore il sole, sostantivo maschile], modello che fa la sua comparsa per la prima volta in Un nuovo giorno, un giorno nuovo, 1985, nell’accezione del chiasmo. Proprio nella forma di chiasmo, però raddoppiato, la polisemia si presenta nelle strofe di Va tutto bene, nella quale ha in totale otto occorrenze (da «fisso il mondo fuori / fuori un po’ dal mondo / dove il mondo ha fine / ci sei tu che sei / la fine del mondo», fino alla più forzata «penso a un mare oltre / luci d’oltre mare»); il chiasmo ritorna in Isole del sud, dove assume sicuramente maggior pregnanza semantica («se si va per mare / non vuol dire / che la promessa di una terra / sia davvero poi la terra promessa»), mentre la polisemia viene usata per collegare un verso con l’altro (Isole del sud / che sono sole / e il sole in mezzo al blu, ecc…). Il ripetersi della figura, anche con polisemie poco pregnanti nella semantica (come quella verbo/sostantivo sale), rende questo artificio piuttosto barocco e manieristico, rischiando di far pedere il significato del brano, per altro molto profondo, sulla tragedia dei migranti a Lampedusa. Baglioni prosegue quindi per quella linea sociale, avviatasi con Uomini persi, 1985, e canta di una tragedia contemporanea a lui molto cara, dopo averla accennata in Di là dal ponte. Il barocchismo linguistico raggiunge forse il massimo in Una storia vera, piena di zeppe nel ritornello, e di tratti ermetici molto forti, ma depotenziati, nelle strofe, e in Come un eterno addio, brano in cui si cerca una figuratività piuttosto elevata, ma completamente priva di pregnanza semantica. Le metafore delle strofre risultano quindi piuttosto vuote, anche laddove si rifanno ad artifici noti come i sintagmi sintetici con il di analogico («i tuoi sorrisi di crepuscoli / lungo tramonti di brughiera / l’attesa stretta dentro i muscoli / e mani stanche di preghiera»).

Brano d’amore senz’altro meglio riuscito è In un’altra vita, che prende piede da una celebre lirica di Khalil Gibran, Ti amerò, da cui sono mutuati alcuni versi; il brano è interessante perché è una sorta di prosecuzione di Mille giorni di te e di me: l’amore in questa canzone è la ricerca proprio di quell’attimo di eterno, ed è una soluzione per poter fermare il tempo («e saremo ancora quelli di un età che non ha età» – in questo caso il gioco di parole è piegato ad esprimere meglio il significato del brano). Anche se il ritornello è piuttosto ricorsivo, con un’informatività molto bassa (un po’ come la precedente Tienimi con te, 2003), ad apparire molto naturali sono le prime due strofe, impregnate di una simbologia esplicitamente cristiana (vangelo, altare) che più avanti si trasforma quasi in mitologia («che vuoi farci se / gli dei dell’amore son stati cattivi»). Nell’album, diverse sono le tessere che ritornano da brani vecchi, private del loro contesto. Questa tecnica di prelievo dal proprio repertorio è piuttosto evidente in L’ultima cosa che farò, dove viene ripresa una rima di Le vie dei colori, 1995 («se non ho vissuto / di un’idea / morirò di te, mia dea»), ma vi troviamo anche un’autobiografismo che ricorda a tratti Viaggiatore («mai troppo santo o troppo poco peccatore»), con qua e là qualche verso efficace e ben riuscito (come «ho letto lo spartito ma ho suonato a orecchio»). A stonare è ancora una volta il ritornello, che ha un tono epico e fortemente iperbolico («io verrò a sciogliere le labbra di vulcani / e quelle nostre bocche / salirò le schiene degli oceani e sulle nostre / io ti inseguirò negli occhi di uragani»), con immagini piuttosto irreali che sembarno ancora una volta fine a sé stesse.

Con voi è un sommario di tutte le fasi della carriera di Baglioni: troviamo l’amore (in Va tutto bene, In un’altra vita e Come un eterno addio), descritto molto manieristicamente, senza l’elegia e la ricorsività adolescenziale dei primissimi anni giovanili; troviamo il filone sociale in Isole del sud, così come quello fortemente autobiografico di L’ultima cosa che farò, a metà tra Io sono qui e Viaggiatore; c’è anche il filone scanzonato-ludico, che prende piede con Oltre, e che qui si esplica in Chi ci ammazza, che però ha un impianto fortemente narrativo, e sfrutta un’immagine molto cara alla poetica baglioniana (i cavalli in libertà), che perde completamente la potenza catartica che aveva in Oltre, diventando un semplice paragone, che sfrutta in particolare la consonanza con razza (in rima con chi ci ammazza). In questi singoli Baglioni utilizza, a mo’ di tessere, tutte le strategie linguistiche sperimentate nel corso della carriera, in particolare a partire dagli anni ’80, con un conseguente svilimento di questi tratti.

È però evidente una stretta relazione tematica con tutta la produzione precedente, con tematiche come la ricerca del un tempo verticale, contrapposto a quello orizzontale, o un intenso autobiografismo; non mi sembra quindi che si possa concordare con il critico Paolo Talanca, quando afferma che Baglioni «non ha più un motivo […] ma anche una motivazione per cantare: un progetto artistico, una metafora del mondo da tradurre in canzone». In realtà, la metafora del mondo è sempre la stessa: ad essere differente è lo stile, che, come visto, diventa piuttosto iconico.

A quest’iconicità di fondo, c’è comunque qualche eccezione. Dieci dita è un bellissimo dialogo tra padre e figlio, ma ad una lettura più attenta, è un dialogo tra Baglioni e sé stesso; Claudio semplicemente accetta il suo cambiamento, e propone un nuovo modo per vivere il proprio mestiere: cantare e suonare, come via per poter cercare il “tempo verticale”, “l’attimo di eterno”. D’altronde, già nel 1999 affermava che «per combattere il tempo / come si fa? / Si può battere solo / a tempo di musica» (Cuore d’aliante). A conferma di ciò, in Dieci dita prende piede una vera e propria regressione infantile, una sorta di esaltazione dell’infanzia e della semplicità (come già in Uomini persi, 1985, o in A Clà, 1999), particolarmente evidente nei versi dei ritornelli, composti da una serie di allocuzioni dirette al figlio (o a sé stesso): «ridi a questo cielo / che ti può svegliare / e gioca finché hai un grido / e un mare da nuotare / finché ritrovi un nido / e un fuoco in mezzo al cielo». Il cielo, immagine e parola del canzonettese più classico, è qui utilizzato all’interno di quest’immagine di regressione infantile, in cui ritorna la metafora dell’acqua (come in Acqua nell’acqua, 1995), ma vi troviamo anche la metafora più celebre, tra tutte quelle della letteratura italiana, per indicare la dimensione sicura dell’infanzia: il nido di pascoliana memoria. In un lessico a metà tra infanzia e religione, convinvono parole più ricercate (come il desueto capo per testa) con forme vicine alla colloquialità, come il marcato che polivalente finale («sogna finché hai voce e amore per cantare / che ancora non sei in croce / se hai un cuore e dieci dita»).

Gli anni della gioventù, E noi due là e In cammino sono brani che presentano una figuratività ancora molto efficace, ma per motivi di spazio non è possibile analizzarli. Tutte le tematiche della poetica baglioniana ritornano in Con voi, il singolo dell’album, molto ben riuscito, che ha rime piuttosto originali, nonché immagini semplici ma efficaci («farsi di sguardi fino a sballarsi di poesia» – l’efficacia dell’immagine è data dall’uso metaforico dei due verbi).

Non sembra quindi di poter concordare di nuovo con Paolo Talanca, quando afferma che Baglioni in questo album, e in generale negli anni Duemila, non ha un motivo per cantare: il motivo è sempre lo stesso, canta solo (e scrive) con uno stile più semplice, che spesso eccede in un barocco fine a sé stesso, ma che a volte riesce a mantenere un’efficacia molto comunicativa e intensa.

Luca

Luca Bertoloni

Nato a Pavia nel 1987, professore di Lettere presso le scuole medie e superiori, maestro di scuola materna di musica e teatro e educatore presso gli oratori; svolge attività di ricerca scientifica in ambito linguistico, sociolinguistico, semiotico e mediologico; suona nel gruppo pop pavese Fuori Target, per cui scrive i brani e cura gli arrangiamenti, e coordina sempre a Pavia la compagnia teatrale amatoriale I Balabiut; è inoltre volontario presso l’oratorio Santa Maria di Caravaggio (Pv), dove svolge diverse attività che spaziano dal coro all’animazione.

3 Commenti

  1. Premetto: adoro Claudio in tutto quello che fa. Tutte le sue canzoni mi piacciono…..secondo me al di là delle tue osservazioni molto particolareggiate ogni canzone esprime qualcosa……a me anche “ConVoi tour” è piaciuto…..è chiaro le canzoni sono “slegate” tra di loro ma ognuna esprime…..emozioni……Dieci dita….semplicemente bellissima, si vede tutto l’amore di questo padre per suo figlio…….Isole del Sud……bellissima, basta chiudere gli occhi e si vedono le immagini di queste persone che si allontanano dai loro posti di origini……e così via Noi due là……..In un’altra vita……insomma ogni canzone esprime un sentimento che secondo me è proprio tipico di Claudio……chiaramente sono emozioni diverse, secondo me più “mature”…..da grande artista che è. Vedremo il nuovo album…..

  2. Caro Luca. . . E sono 50anni di carriera. . E io ne so qualcosa perché lo seguo da quarantaquattro. . . Secondo me.. è lo dico contro il mio interesse . . Doveva finirla in bellezza con qpga. . Così evitava il flop e le critiche di “con voi tour ” che è stata l’ennesima “pappardellata ” che solo io e pochi altri irriducibili hanno sopportato. Una carriera prestigiosa come la sua merita una conclusione con il botto.. . Ricordiamo che lui nel 1982 è stato il primo ad inaugurare il tour nel vero senso della parola.
    Per lui si è aperto l’arsenale di Venezia ed ha riempito piazza di Siena a Roma come nessuno aveva fatto mai. .è così è stato per gli stadi perché anche Vasco Rossi nel 82 era n perfetto sconosciuto che esordiva a Sanremo.. anche i siti archeologici che hanno caratterizzato gli anni 2000 con acustico e iteatri più belli con incanto. Nel 2003 ha ripetuto i concerti colossali negli stadi come fece _da me a te nel ’98.. .nel 2006 con tutti qui con gli altri tutti qui concquglicdegli altri tutti qui . . Ha raccolto proprio tutto. . E con qpga ha dimostrato che lui è il numero uno e tutti gli altri “sottomessi” hanno partecipato anche solo con una parola al disco. Non contento ha girato anche tuttii continenti nel2010 confermando che anche all’estero è il numero uno e la Pausini pupo Ramazzotti li fanno un baffo. .ora spero solo che dopo Sanremo non si faccia prendere di nuovo dalla mania di grandezza e che l’album in uscita sia una sorta di conclusione per quanto riguarda la discografia. Infatti ha cominciato con qpga un concerto album basato sull_amore adolescenziale e in sono io e con voi un amore maturo CV e sofferto ovvero sia la sua specialità l’amore in tutte le sue sfaccettature specialmente la sofferenza. .ecco questo è quello che gli riesce meglio. .far prendere corpo alle emozioni soprattutto quelle negative. .poi sommato a che è un ottimo osservatore ecco qua il perché è il numero uno. Per quanto riguarda le rime è sempre stata una sua fissa ma come gli piace dov’è il mondo a fine ci sei tu che sei la fine del mondo di queste frasi “incrociate” in tutto il suo repertorio ce ne sono a decine. . È adesso. . . Facciamo un mare di auguri a Claudio “Baglione” come diceva mia nonna che mi ruppe il vinile di e tu come stai fracassandolo per sbaglio a terra. . Per il compleanno il tour e la sua magnifica e unica carriera. . . PS Claudio non ti ritirare in convento perché sennò mi tocca farmi suora a 54 anni!!!!

  3. Grazie Luca per queste belle analisi dei testi.
    Mi hanno fatto venir voglia di riprendere in mano i cd di Claudio, da LVE’A fino agli ultimi album.
    Molte delle osservazioni che fai sono per me troppo tecniche. Ovviamente ravviso – come te e tutti – un netto calo qualitativo degli album dei 2000, assieme ai vari ‘figli unici’.
    Io da “filastroccaro” per hobby sono spesso incantato dalla capacità di Baglioni di trovare rime e giocare col significante dei termini; tuttavia in questo ascolto progressivo della sua discografia ho notato come proprio a questa ricerca ossessiva della rima a tutti i costi sia da ricondurre il peggioramento dei suoi testi.
    Per amor di rima baciata, escono versi e intere canzoni di scarsa pregnanza di contenuto o significato.
    Se penso a Tutto in un abbraccio (bella nell’insieme!) immediatamente mi sovvengono le rime con -accio di tutti i ritornelli (quando uscì per ridere dicevo a mia sorella che mancava solo “carpaccio” e poi le aveva usate tutte); se penso ad In cammino noto la scarsa immediatezza delle strofe per via di tutte le rime, la ripetitività delle rime in -ino e -udine; Va tutto bene è un gioiello guastato dai giochetti di parole (alcuni molto stiracchiati come ‘le luci d’oltre mare’ che citi anche tu); Come un eterno addio la ricordo per le rime in -era, Dieci dita è troppo ingabbiata dalle rime A-B-A-B… per risultare fluente e sincera ecc. ecc.
    Poi la rima obbligata porta inevitabilmente a riproporre sempre le stesse parole: quante stelle-pelle, viaggio-coraggio-miraggio, orizzonte-fronte- ponte, vecchio-specchio (se nel nuovo album sento ancora una rima vecchio-specchio do di matto!).
    Ripensando a Quante volte, Tamburi lontani, Mille giorni di te e di me mi sovvengono ritornelli con poche rime, qualche assonanza al massimo. Eppure sono dei capolavori, “suonano” che è una meraviglia e si ricordano senza fatica. Essendo Claudio un musicista grandioso, credo paradossalmente che sui testi debba lavorare meno, scriverli più di getto. Questo è quel che auspico per il nuovo album.

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