Presentazione cd Solo su Sorrisi
SOLO
Grazie a brani come “Questo piccolo grande amore”, “E tu…”, “Sabato pomeriggio” e “Poster”, Claudio Baglioni è ormai uno degli artisti italiani più amati e di maggiore successo. Un successo tanto inatteso quanto vasto da riuscire addirittura a varcare l’Oceano, reclamando una versione in lingua spagnola delle sue “hit” più “gettonate”. Siamo nel 1975 e Baglioni vola in Sud America per un lungo (e fortunato) tour promozionale. Una full immersion di due mesi e mezzo tra le grandi anime, le grandi voci ma anche le grandi contraddizioni del continente latino – americano, attraverso Brasile, Argentina, Cile, Perù, Venezuela e Messico. Sarà proprio il folgorante impatto con queste realtà e, in particolare con la musica, la lingua e le insanabili ferite di un paese straordinario come il Brasile, a insinuare l’idea di un album come “Solo”. Un disco che ruota intorno al doppio significato del termine: quello “musicale” (“assolo”: sia breve esecuzione solista, che traversata musicale in solitaria) e quello più personale e “introspettivo”, di una solitudine a volte cercata, più spesso imposta, ma che costringe sempre a confrontarsi con il senso delle cose e il percorso accidentato dell’esistere.A toccare la sensibilità del musicista, infatti, non è solo il richiamo irresistibile dei crescendo percussivi dei musicisti delle scuole di samba che si preparano a sfilare (al quale fa da contrappunto il “suono dolce e insinuante di una lingua danzante e misteriosa”) ma, soprattutto, la linea di confine che separa una smisurata ricchezza da una altrettanto smisurata povertà. Una tensione di forze sullo sfondo della quale si muove una musica strepitosa, che sembra davvero l’unico elemento in grado di cucire insieme il mondo dorato della società opulenta, alla povertà senza rimedio delle “favales”. E’ proprio questo contrasto, unito ad una inconsolabile sensazione di solitudine (che Baglioni respira anche nel delirante caos delle sfilate) il tema intorno al quale, rientrato in Italia, nascerà un disco come “Solo”: intenso, profondo, ironico e amaro allo stesso tempo, nel quale, per la prima volta, Baglioni appare anche nella duplice veste di arrangiatore (anche se non c’è quasi nulla di scritto, se si escludono le partiture per archi di”Solo” e “Quante volte”, a cura di Toto Torquati, dirette da Nicola Fanale) e produttore.Un album particolarmente ricco dal punto di vista delle sonorità, non solo per le evidenti influenze raccolte durante il tour in America latina, ma anche perché decisamente vasta è la “paletta” timbrica che lo caratterizza. In particolare evidenza: “plettri” (chitarra classica, acustica, elettrica, 12 corde, pedal – steel, chitarrina, ukulele, mandoliono elettrico, bouzouki, mandola, mandoloncello e cavaquinho, una piccola chitarra a 4 corde), percussioni (campanaccio, pandeiro, congas, timpani, surdo, wash – board, tumbe, cabaza, maracas, marimba e bongos) e fiati (armonica, flauto basso, tenore, contralto e soprano, sax tenore, contralto, baritono e soprano). Il tutto, naturalmente, senza dimenticare colori fondamentali offerti da tastiere quali (oltre al tradizionale pianoforte): sintetizzatore (domina qui il mitico Arp 2006, tra i primi synth evoluti considerato ancora oggi strumento di culto, responsabile tra l’altro dell’intro “spaziale” del brano dedicato a Gagarin), piano Fender (un pianoforte elettrico, particolarmente amato e utilizzato in ambito jazz e fusion, ma anche nel pop anglo – americano), celesta, flanger – piano, pianoforte a puntine, mellotron (che possiamo considerare l’antenato degli odierni “campionatori”, in grado di riprodurre suoni particolarmente “realistici”. I tasti, infatti, azionavano piccoli nastri sui quali era stata precedentemente incisa la voce di strumenti acustici come archi, cori o fiati) clavicembalo, clavinet e organo Hammond.Ad una tale ricchezza e varietà timbrica fa da contrappunto un album di poche, piccole e grandi solitudini. Solitudini personali e proprie come “Solo”, “Quante volte” o “Puoi” (nel frattempo si è, tra l’altro, interrotto il legame artistico con Tonino Coggio, che aveva co-firmato con Baglioni molti pezzi importanti e aveva collaborato alla realizzazione di tutti e quattro gli album precedenti), ma anche altrui, come “Gagarin”, “Nel sole, nel sale, nel sud”, “Romano, male, malissimo” o il “Pivot”, ma – a ben guardare – anche in “Gesù caro fratello”, “Duecento lire di castagne” e “Strip Tease” Solitudini, però, che non si fermano allo stadio di dimensione individuale e “particolare”, ma che da quella traggono spunto per trasformarsi in caratteri “universali”.La prima solitudine – simbolo è quella di Yuri Gagarin. Nell’aprile del 1961 – Baglioni non ha ancora dieci anni – il cosmonauta sovietico è il primo uomo in orbita nello spazio. A questo primo, fantastico, volo intorno alla terra – descritta da Gagarin come un bellissimo “pianeta blu” – è dedicato il brano di apertura dell’album, uno dei più belli dell’intero disco. Poche, efficacissime, immagini (“la terra restò giù più piccola che mai e la guardai non me lo perdonò”; “e l’azzurro si squarciò, le stelle trovai lentiggini di Dio”; “e sul Polo Nord sposai l’eternità, anche l’ombra mi rubò”) sono sufficienti per raccontare l’incanto, lo stupore, ma anche l’impotenza dell’uomo di fronte all’infinito.Decisamente più “terrestre” e ordinaria, anche se non per questo meno pesante, la solitudine del protagonista di “Duecento lire di castagne”, che trascorre la propria pausa pranzo senza compagnia, consumando insieme alle castagne del “cartoccio”, il sogno di lasciare, una volta per tutte, “le ciminiere, le sirene, la città, i cancelli e i capannoni bagnati di foschia e di umidità”. Ad ispirare questo brano, un incontro, quasi quotidiano, a distanza, durante le pause di lavorazione del disco, registrato sempre a Roma, questa volta però non nella “cittadella” della RCA, ma presso gli studi “Quattro uno” di Via Nomentana.Ed alla solitudine è dedicato, naturalmente, anche “Solo”, il brano che dà il titolo all’intero album, un pezzo destinato al grande successo e, ancora oggi tra i più amati e richiesti. Spicca qui un assolo di sax dal puro sapore pop, opera di Gianni Oddi, caso più unico che raro per quanto riguarda le produzioni baglioniane, dove i fiati vengono utilizzati spesso, ma sempre in “sezione” e mai in episodi solistici. “Solo” fu presentato per la prima volta a Venezia, durante un gala organizzato dall’Unicef. In quella occasione, durante l’esecuzione di “Poster”, il grande Astor Piazzolla – virtuoso del bandoneon e tra i più grandi musicisti del novecento – si unì a Baglioni per accompagnarlo in una inedita e sorprendente jam.La solitudine dell’ipocondriaco – incompreso è, invece, quella di “Romano, male malissimo”, uomo dal “viso buono”, con “grande cuore”, “capelli incerti” e “andatura a trottola”, che ha “l’ossessione dello specialista e delle malattie”. Un brano agrodolce, che parte con sonorità e atmosfere blues, per animarsi durante i ritornelli dell’energia tipica della “marchinha”, una forma musicale tradizionale brasiliana, nata proprio per accompagnare le sfilate del carnevale.Solitudine senza appello, incomprensibile e ingiustificabile, è quella di “Gesù caro fratello”, un brano inizialmente scritto per “Oltre la collina”, un album di Mia Martini (RCA 1971), all’interno del quale era apparso con il titolo di “Gesù è mio fratello”. Un testo firmato da “Oremus”, ma adattato da Baglioni in romanesco, per renderlo più “popolare” e più vicino alle voci della “strada”. Particolarmente interessante il lavoro di costruzione con il quale, con il solo ricorso ai sintetizzatori, si simulano partiture ispirate all’opera di un grande musicista classico, maestro dell’orchestrazione, come Ottorino Respighi.Solitudine metropolitana è quella della bellissima “Nel sole, nel sale, nel sud” – uno degli episodi più intensi dell’album e, per certi aspetti, dell’intero repertorio di Baglioni – dedicata ad una straordinaria figura di tassista carioca. Un uomo dal “naso a nodi di cravatta” e “polsi di bambù”, con “cicatrici sulle spalle dove le ali non ricresceranno più” che “porta a spasso gratis tutti i santi giorni per le vie di Rio” “traffico, disperazione, attesa, rabbia, nostalgia, rassegnazione”. Il brano, che si apre con una intro per voce sola e chitarra classica, si chiude con un trascinante finale sambato di sole percussioni.E’ la chitarra “fingerpicking” di Giovanni Unterberger (tra i primi ad introdurre nel nostro paese questa tecnica esecutiva di origine americana, nella quale l’utilizzo della mano destra e la struttura degli arpeggi cercano di riprodurre l’effetto delle due mani sul pianoforte, per ottenere esecuzioni simili a quelle del “pianoforte ragtime”) a introdurci nella solitudine a più voci di “Strip – Tease”. Alla non felice parabola della spogliarelista del “Zigzagar” – il cui sogno non era certo quello di “mostrarsi alle dentiere e ai decollete” – fa da contraltare una galleria di varia umanità, equamente distribuita tra squallore e mediocrità. Il grasso colonnello che “muore d’inattività” e occupa sempre un posto in prima fila; l’uomo di stato con gli occhiali scuri, “che si è fumato già mezza tabaccheria”; “un ometto mezza età” con un vestito “colore cane che fugge”, che “cerca invano compagnia”; l’intellettuale che “ha inaugurato i baffi” e, ovviamente, non perde occasione per sentenziare che “il nudo è sempre un’arte di per sé”. Interessante è l’atmosfera vagamente vaudeville ottenuta, grazie al sapiente mix di chitarra acustica, clarini, pianoforte honky – tonk e steel guitar (popolarmente conosciuta come “chitarra hawaiana”, particolarmente utilizzata nel blues e nel country americano) anche questa opera di Uterberger.C’è, poi, la solitudine dell’ex. Nel senso “sportivo”, però, e non “affettivo” del termine. E’ l’incontro del narratore con un “Pivot” non più in attività: “un gigante”, “due metri contro il blu”, “sui trentotto, forse appesantito, ma con il tocco ancora buono”. Un dialogo muto particolarmente intenso, che si gioca attraverso le evoluzioni del pallone, in un cortile tra odori di cena e di tv. Un dialogo di passaggi, sguardi e gesti, fino alla schiacciata finale accompagnata dall’eco immaginaria dell’esultanza di gradinate ormai lontane nel tempo.Solitudine del dopo – amore è, invece, quella di “Quante volte” – altro brano destinato a diventare un “classico” nel repertorio del musicista romano e che non manca mai nelle scalette delle esibizioni live – nella cui intro affidata a chitarre acustiche e sintetizzatori il suono gioca nel panorama dello stereo passando da “left” a “right”, regalando all’incipit del brano un particolare effetto di spazialità. Anche qui, come “Nel sole, nel sale, nel sud” il tappeto della parte corale è affidato alle voci del coro dell’ANA, l’Associazione Nazionale Alpini, diretto da Angelo Pietropaoli. In effetti non è una prima, ma un ritorno. Il coro dell’ANA, infatti, aveva già collaborato con Baglioni ne “Il lago di Misurina” (inserita nell’album “Sabato Pomeriggio”, ma, mentre allora, data l’ambientazione del pezzo, si era trattato di una presenza quasi “didascalica”, qui il coro rappresenta una precisa scelta sonora alternativa ai più utilizzati coristi moderni. In “Quante volte” tornano le armoniche metropolitane che avevano colorato “Pivot” e – con un curioso e molto efficace effetto di rovesciamento – le strofe terminano in un crescendo dinamico che si interrompe proprio all’inizio del ritornello. Ritornello che vive di note quasi sussurrate di chirarra classica e voce, per poi far rientrare il gruppo con un “tiro” che occhieggia al funky, restituendo energia al pezzo e lancia la strofa successiva.Ancora chitarra classica e voce per l’apertura del brano che chiude l’album: “Puoi?”. La solitudine dell’incomunicabilità è raccontata qui con una delle più belle melodie firmate Baglioni. Una linea che, nota dopo nota, avvolge e trascina fino al sorprendente crescendo centrale (tra i passaggi più felici e intensi tra i molti bellissimi scritti dal musicista romano), improvvisamente interrotto da un insolito break di fanfara di sapore vagamente beatlesiano, per poi riprendere a ruotare e trascinare.Un album – prodotto dallo stesso Baglioni e da lui arrangiato insieme a Toto Torquati; realizzato da Rodolfo Bianchi; registrato e mixato da Franco Finetti e Luigi Notte – intenso e ricco, nel quale melodie, testi, sonorità e arrangiamenti presentano un Baglioni maturo, che canta e incanta, consapevole com’è del valore della propria “solitudine” di uomo e artista e delle capacità che, anche grazie a lei, cresce e si affina di leggere oltre la superficie di cose, eventi e persone.
Trascrizione a cura di Sabrina Panfili, in esclusiva per www.saltasullavita.com e www.doremifasol.org