Presentazione 13°cd Sorrisi
QPGA
Questo doppio cd – che, a prima vista, sembrerebbe il figlio dell’album “Questo piccolo grande amore” del ’72 – ne è, in realtà, il padre. L’apparente assurdo cronologico di un padre che vede la luce trentasette anni dopo il proprio figlio, si motiva spiegando che la paternità alla quale ci si riferisce è una paternità “ideale”. L’idea iniziale dalla quale tutto era partito, infatti, era quella di realizzare un album doppio (un “concept album”, come si diceva negli anni settanta, vale a dire un disco le cui canzoni concorressero a formare una storia), nel quale la vicenda dei due protagonisti venisse raccontata come in una sorta di musical. Il progetto era stato, infatti, originariamente presentato alla casa discografica (RCA) come un “soggetto” cinematografico. Il tutto era appunto su un drappello di fogli scritti a macchina nei quali lo stesso Baglioni aveva cercato di mettere a fuoco con la massima chiarezza possibile – aveva poco più di vent’anni – la sua idea originale. In quei fogli erano stati organizzati al meglio appunti, idee, riflessioni, spunti sparsi in vari quaderni, nei quali l’idea di “QPGA” aveva cominciato a prendere forma già alla fine degli anni sessanta. Quattro, infatti, erano stati gli anni di gestazione del progetto: dal ’69 al ’72. Qualche mese prima di intraprendere la lunga odissea che – insieme ad un equipaggio di settanta amici artisti – ha portato il musicista romano sulle coste affascinanti di questo doppio “QPGA”, nel riordinare il materiale accatastato in un magazzino, Baglioni era incappato nei quaderni di allora. Un impatto fortissimo. Non solo nel ritrovare la calligrafia acerba di allora, che lo aveva riportato immediatamente a quegli anni, ma soprattutto nel rendersi conto della forza che alcune intuizioni e idee erano ancora in grado di esprimere. Fu così che Baglioni trascorse qualche giorno a rileggere tutti gli appunti, ritrovando l’intensità del filo rosso di un progetto che, malgrado alcune inevitabili ingenuità, conservava e conserva ancora un’energia e una freschezza in grado di catturare. Il senso autentico del progetto era questo: se gli anni settanta avevano, in qualche modo, rappresentato per tutti “il sogno” di un mondo diverso e migliore (la “summer of love”, “mettete i fiori nei vostri cannoni”, “fate l’amore non fate la guerra”, ecc. ecc.), gli anni settanta avrebbero rappresentato il brusco e doloroso risveglio da quel sogno. Un risveglio tanto più duro, quanto più grande e bello era stato il sogno che aveva coinvolto soprattutto la generazione più di ogn alta capace di sognare: i giovani, i quali, per la prima volta, si erano affacciati sul boccascena del mondo, per reclamare il diritto ad essere attori e non spettatori della propria vicenda, sia individuale che collettiva. In questo senso, allora, la storia che questo “QPGA” cerca di raccontare che non è solo una normale vicenda di amore adolescenziale, con tanto di “cronaca di una morte annunciata” (incontro, innamoramento, amore, incognita – futuro, crisi, tradimento, disillusione, rottura) ma è, soprattutto, la metafora del percorso di una generazione vhe vive il non facile tempo di confine tra speranza e disillusione. L’ultima generazione che ha avuto un sogno veramente grande – amore, pace, giustizia, libertà e che, risvegliandosi, si trova a fare i conti con una realtà che sta rapidamente precipitando in quello che, per molti aspetti, sarà poi l’incubo degli anni ’70. Una “parabola” il cui richiamo si sente ancora più forte oggi, in un tempo che sembra riproporre alcuni elementi chiave che caratterizzano gli anni ’70: la crisi petrolifera, con la conseguente crisi economica e occupazionale, la crescita dell’inflazione e l’austerity; il ritorno delle “ideologie” e di una certa asprezza nella dialettica politica, con una radicalizzazione dello scontro; una preoccupante crescita delle tensioni sociali e del tasso di violenza nella nostra società, con una sempre più forte domanda di sicurezza. A tutto questo, oggi come allora, si aggiunge la tensione generazionale tra quanti (i giovani di ieri) sembrano aver consumato tutto (e inquinato il pianeta) e quanti (i giovani di oggi) avvertono il profondo disagio per l’assenza di futuro (“Il futuro non è più quello di una volta” qualcuno ha scritto sui muri delle nostre città) oltre all’urgenza di trovare risposte nuove, rapide ed efficaci alla minaccia ambientale.
Alla fine l’idea originale era stata accantonata. La RCA non se l’era sentita di rischiare un album doppio con un giovane praticamente sconosciuto e il progetto era stato ridimensionato e condensato in un solo LP. Ecco, allora, perché questo doppio cd datato 2009 è temporalmente figlio, ma idealmente padre dell’album del ’72.
C’è anche un segno simolico del legame circolare che unisce questi due progetti. Segno prima grafico e poi fotografico. Un anello, presente su entrambe le copertine. Nel progettare l’immagine di questo QPGA, infatti, Alessandro Dobici è tornato sui luoghi che avevano ispirato i disegni della copertina del ’72, firmata da Pomeo De Angelis. L’anello di ferro accanto al quale De Angelis aveva ritratto un Baglioni giovanissimo, in jeans blue, maglione rosso e camicia gialla, era ancora li, ancorato alla pietra dei Muraglioni.
Un segno che l’occhio di chi racconta storie per immagini non poteva lasciarsi sfuggire e che, infatti, è diventato uno degli elementi cardine della copertina di questo QPGA e un simbolo, straordinariamente evocativo, di tutto ciò che lega i due album, il Baglioni di ieri a quello di oggi e tutte le anime che hanno amato e amano la musica contenuta in e tra queste due opere straordinarie.
Baglioni avvertiva, dunque, bisogno di riprendere l’idea originale, per portarla a compimento e per chiudere il cerchio. Ma c’erano anche altre due cose che gli chiedevano di accettare una sfida così rischiosa come quella di riprendere in mano un’opera tanto famosa e fortunata: il bisogno di festeggiare un disco che aveva rischiato di non uscire mai e il desiderio di dirgli grazie per tutto quello che quel disco aveva fatto per lui. “Gli dovevo – confessa lo stesso Baglioni – (e gli devo ancora) così tanto, che sentivo il bisogno di fare tutto il possibile per cercare di saldare il debito. Prima di lui, infatti, ero solo Claudio; dopo di lui ero diventato Claudio Baglioni”. La differenza non è piccola. Grazie a quel disco ( e ad una canzone in particolare), non solo l’autore della “canzone del secolo” aveva avuto accesso ad un successo non immaginabile e insperato, ma era anche riuscito a sciogliere due nodi personali difficili e fondamentali: quello dell’identità e quello del futuro. Baglioni ha ricordato spesso che, da ragazzo, non si sentiva avvinto dal sacro fuoco dell’arte e della musica. “Avevo – ricorda Baglioni – semmai l’urgenza di gettare un ponte levatoio verso gli altri, attraversarlo e stabilire un contatto. La musica è stata questo ponte levatoio e le canzoni sono state le mie mani aperte verso gli altri. Qualcuno ha cominciato a stringerle, i nodi si sono sciolti, il contatto è stato stabilito e, per fortuna, non si è più interrotto”.
Un album – seppure doppio – però non sarebbe bastato. Da qui l’idea di quello che, a suo tempo, venne battezzato il “quadrigetto”: un romanzo che raccontasse ciò che un disco non avrebbe mai potuto raccontare; un film che restituisse l’atmosfera di quella stagione; un tour che, finalmente, mettesse in scena un progetto musicale che ha tutte le caratteristiche di un’opera popolare moderna, e un disco (questo doppio cd), che recuperasse tutta la musica che era stata sacrificata allora, insieme a tutta quella che la storia d’amore di Giulia e Andrea aveva continuato ad ispirare nel corso degli anni. Un “Q” uaderno (il romanzo uscito per Mondadori); una “P” ellicola (il film girato da Riccardo Donna per Medusa), un “G”iro di concerti e un “A”lbum; QPGA, appunto.
Un progetto nato nel segno fortemente simbolico del numero quattro. Pochi lo sanno, ma “Questo piccolo grande amore” – la canzone, non il disco – ha avuto una gestazione particolarmente lunga e sofferta. Anche perché è un brano anomalo. Irregolare, nella sua struttura, se paragonato alla “forma” tradizionale di una normale canzone pop. Quattro anime, frutto di altrettanti diversi momenti di ispirazione. Le prime note (quelle della frase “Piccolo grande amore, solo un piccolo grande amore…” per capirci) Baglioni le aveva in mente già nel 1969. Tanto che erano state inserite in una specie di suite che si chiamava “Ci fosse lei”. Un brano che è stato pubblicato, per la prima volta, nella raccolta “Tutti qui” (2005). Poi venne la parte più intima e malinconica del pezzo. Il riferimento è alla frase”E lei, lei mi guardava con sospetto…”, caratterizzata da un’atmosfera musicale in “minore”. Sebbene la frase sia seconda in ordine di “apparizione”, è poi risultata terza nell’ordine delle sezioni che hanno dato vita alla struttura definitiva del pezzo. Quella che sarebbe diventata la strofa vera e propria (“Quella sua maglietta fina…”), invece, venne per terza, mentre – ricorda Baglioni – “mugolavo qualcosa alla chitarra acustica”. Ultimo è arrivato, il cosiddetto “ponte”, vale a dire quella serie di note che legano strofa e ritornello (“Le chiare sere d’estate…”). Un ultissimo momento di ispirazione, infine, ha riguardato l’introduzione, i fortunati sette accordi di piano che riecheggiano lo sciabordio del mare sulla batttigia. Quattro anni secchi (’69 – ’72), dunque, per dar vita a quella che sarebbe stata votata “Canzone del secolo”, ma che al suo apparire non fece altrettanto scalpore, dal momento che l’allora direttore artistico della RCA, si lasciò andare ad un “Non male. E’ una buona facciata B”! Una facciata B che ha dato soddisfazioni incredibili al suo autore, ma che, a un certo punto, ha rischiato la sua luce di oscurare tutto il resto: compreso il suo stesso autore. Un braccio di ferro durato anni. “O lei, o io, pensavo – ricorda Baglioni. Non riuscivo a far pace con l’idea che fosse sempre lei a tracciare la rotta. A tenere il timone. Dovevamo trovare un equilibrio. Come vela e vento. Altrimenti ci saremmo arenati. Entrambi. E’ stato a quel punto che ho cominciato a cercare di riappropriarmene, cambiando armonia, ritmo, sonorità, modificando il più possibile la melodia e talvolta anche ironizzando sul testo (ancora oggi, talvolta, mi capita di cantare:”Ti amo davvero, ti amo lo giuro, ti amo lo giuro su Arturo!”). Alla fine, però, Baglioni ha capitolato e “Questo piccolo grande amore” ha vinto questo estenuante braccio di ferro. Sentiamo com’è andata dalle parole del suo autore “Mi sono arreso. Ho capito che aveva vinto lei. Le canzoni sono come i figli: li mettiamo al mondo, ma non ci appartengono e devono fare la loro vita. La scintilla della riflessione è scoccata a Palermo, subito dopo un concerto. Una signora mi ha affrontato e mi ha dato uno schiaffo. Non per offendere o per ferire. Ma per svegliare. Come una secchiata d’acqua fresca che rianima. “Lei non può farlo”, mi ha detto, con un tono che non ammetteva repliche. Non si permetta mai più. Quella canzone non è sua: è nostra. Lei l’ha scritta, d’accordo. Ma ormai appartiene a noi. Io non tocco le sue cose. Lei non tocchi le mie!” Ho capito che aveva ragione e forse quello schiaffo è la vera prima pietra di questo disco. In fondo non è altro che un piccolo grande amore: quello che non dura mai tutta la vita, ma la cambia per sempre. La mia l’ha cambiata davvero. E io non ho mai smesso di coltivare la segreta speranza che, in qualce modo, queste note e queste parole possano portare un piccolo vento del cambiamento anche nella vostra”. Che dire? Difficile che un album così intenso e così ricco di grande musica ci lasci così come ci ha trovati. Molto più probabile che la storia di Giulia e Andrea e le molte letture che questo progetto suggerisce ci invitino a riflettere sul senso autentico e sul valore delle piccole grandi cose di cui si anima il nostro tempo.
Trascrizione a cura di Sabrina Panfili, in esclusiva per: www.doremifasol.org e www.saltasullavita.com