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Baglioni da Venditti

Il concerto è finito e con Antonello Venditti, esausto e sudato ma ancora euforico, vibrante, la camicia di fuori, i vecchi cari Ray-Ban appannati, rientriamo nel ventre di cemento armato del Palottomatica, la solita astronave che illumina l’ Eur, novemila persone che intanto escono felici, le sciarpe della Roma al collo e gli occhi lucidi, l’ emozione, l’ eccitazione, l’ uscita da una messa laica romana e romanista, tutti a cantare in coro, tutti con la voce roca, non come la sua di voce, che anche adesso, dopo due ore di palco, è forte e tonda, ferma nel tempo, eppure dal primo Circo Massimo sono trascorsi quasi trent’ anni. Auguri, Antonello. «Ah, beh, sì, grazie… festeggiare il mio sessantatreesimo compleanno qui, tra la mia gente, è stato magnifico. Mi sono fatto un regalo pazzesco». Una festa a sorpresa anche per il pubblico. Raffaella Carrà e Renato Zero comparsi all’ improvviso, la torta con la candelina. «Visto Renatino? S’ è messo a canticchiare “La società dei magnaccioni”… e pensare che io, come cantautore, nasco proprio in contrapposizione a quella tradizione musicale, alla Roma degli stornelli… Però stasera è stato bello, c’ era affetto vero». C’ era, per la prima volta, anche un pianoforte rosso e non bianco. «Rosso come questo mio momento di vita. Rosso perché dentro quel colore c’ è tutto: la mia storia politica e il mio travaglio, rosso può essere il colore della gioia e della sofferenza…». Ora Venditti chiede un’ aspirina, un bicchiere d’ acqua. Si siede sul divano, saluta i nipoti venuti a regalargli cioccolatini, saluta Lella e Fausto Bertinotti che vanno via dicendo «sei il più grande», risponde agli sms, si volta: «Quando suono qui, per me, è come suonare nel salotto di casa. Roma è casa mia». Parte da qui, dal Palalottomatica, con due concerti, ieri e ieri l’ altro, ma si replica anche il 5 maggio, la tournée per il lancio del suo ultimo album, «Unica», disco dedicato alle donne e all’ Italia, al futuro e alla speranza. Parte con un minuto di silenzio dedicato all’ amico Lucio Dalla e a Francesco Pinna e Matteo Armellini, i due ragazzi operai schiacciati mentre costruivano palchi. Poi le luci potenti dei fari, una band dal sound muscoloso, strepitosa doppia percussione che porta dentro nel ritmo di «Compleanno di Cristina», «Giulio Cesare», «Piero e Cinzia», mentre lo sguardo scorre sui ranghi del pubblico, che conosce a memoria i testi, e li canta, e ogni canzone è un pezzo di memoria, un ricordo, una nostalgia, ci vorrebbe un amico per poterti dimenticare, Sara svegliati è primavera, Sara sono le sette e tu devi andare a scuola, Sara prendi tutti i libri e accendi il motorino. I cinquantenni che andavano al liceo quando uscì «Sotto il segno dei pesci» (1978) sono venuti con i figli. E i figli riprendono il concerto con i telefonini. Pubblico trasversale. Coatti e notai, giornalista radical-chic con costosissima borsa Louis Vuitton e preti in jeans, disoccupati e operai della Fiom, studenti e professori che fanno il coro su «Notte prima degli esami/ notte di polizia/ certo qualcuno te lo sei portato via…». Ma è quando Venditti – «Roma capoccia» già recitata come uno struggente rap metropolitano – seduto al pianoforte rosso dice, «vediamo se questa la conoscete…», è in quel momento che tutti capiscono, intuiscono, e così le prime note restano come sospese, come per dare il tempo a tutti di mettere le mani in tasca ed estrarre la sciarpa, spesso reliquia di antichi e rari scudetti custodita con cura e tirata fuori dal cassetto prima di venire qui, al concerto, perché tanto Antonello la canta di sicuro. E infatti sì, certo, ora Venditti attacca «Grazie Roma» e allora cantano in novemila, le sciarpe stese, sciarpata da curva, ciascuno con la voce che va e un pensiero per qualcuno in fondo al cuore. «Grazie Roma», come più volte precisato da Venditti non è inno – l’ inno è «Roma Roma» – piuttosto è preghiera di ringraziamento, è gospel calcistico di rito giallorosso. Da questo momento in poi, il concerto procede nell’ elettricità che rende le esibizioni di Venditti in questa città evento antropologico più che musicale. Lui lo sa. Parla al pubblico, si confida. La scaletta è studiata per fare un passo avanti, con uno dei sei brani del nuovo album, e tre indietro, con «Amici mai», «Ogni volta», «Alta marea». Atmosfera calda, che diventa caldissima e danzante quando arriva il momento di «Benvenuti in paradiso» e di «In questo mondo di ladri». Palco buio all’ improvviso, la luce di una sola candelina. Raffaella Carrà e Renato Zero. Cori per Renato. Renato entra in questo piccolo sabba con una frase che scatena ovazioni: «Regà, me dispiace per la Padania, ma noi romani semo troppo forti». Poi attacca, senza orchestra, la «Società dei magnaccioni» (e la cosa divertente è che sugli spalti canta anche Rutelli, senza sapere che il senatore Lusi, suo tesoriere ai tempi della Margherita, è alla tivù ospite di Santoro e minaccia di vuotare il sacco). Chiusura con «Ricordati di me». Baci, abbracci. Luci in dissolvenza. Buio. Ora con Venditti lasciamo il camerino e andiamo nel salone dov’ è stato organizzato un piccolo rinfresco. Bilancio. «Gli amici sono venuti tutti. Ieri ho sentito De Gregori, ma aveva un impegno. Baglioni dovrebbe essere da qualche parte. C’ erano gli ultimi sindaci di Roma, compreso Veltroni, ma non Alemanno. Per la verità mancava anche qualche rappresentante della Roma calcio». Se gli americani dell’ As Roma la ritengono un pezzo del passato, sbagliano. E di tanto. «Se è per questo, mi sa che sbagliano anche con Luis Enrique…». Tartine con mousse di ceci, un calice di Franciacorta che ha preso tappo, una Marlboro. Sono le due di notte. Ma, da dietro una colonna, compare il classico esemplare di imbucato romano. «Antoné, te ricordi de me? So’ Sergetto, er fijo de Pollicino… Bella Antoné! Sei un mito!». Venditti, paziente ai limiti della dolcezza, gli stringe la mano e lo congeda: «E come non me ricordo? Anzi, salutame tanto papà». Fabrizio Roncone RIPRODUZIONE RISERVATA ****Circo Massimo, 1983

Roncone Fabrizio

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