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Fiorello vorrebbe farci una sorpresa a Sanremo

Fiorello – Vorrei farvi una sorpresa

Presentarmi a Sanremo senza avvertire nessuno (neanche Baglioni). Lo showman racconta il suo amore per la radio, i social network e un certo tipo di tv

VORREI INVECCHIARE MA NON CI RIESCO
A 57 anni: «Quasi l’età che aveva mio padre quando morì, ci penso spesso, tra dolore e scaramanzia» FIORELLO si racconta. Dagli inizi nei villaggi: «Spegnevo le sigarette con i calli dei piedi» fino al successo ottenuto a prezzo di critiche che dice oggi: «Essendo permaloso ho sempre fatto molta fatica ad accettare»

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di MALCOM PAGANI foto MAKI GALIMBERTI per Vanity Fair

«LA RADIO È FATTA DI PAROLE E MUSICA, È UNA COSA CHE PER ASSURDO NON ESISTE. LA TV È INVECE IL MENO VERITIERO DEI MEZZI CON CUI MI ESPRIMO»

Controluce tutto il tempo se ne va: «Tra qualche mese compirò 58 anni. L’età che aveva mio padre quando morì. Ci penso, con ansia sottile e malcelata scaramanzia, quasi ogni giorno». Non sono state sempre liete le ore di Rosario Fiorello, «irrecuperabile cazzaro» per autodefinizione, insospettabile palombaro della malinconia per indole e perché, a volte, la vita ti costringe a guidare «come un pazzo» a fari spenti nella notte.
«Ero a Sanremo per il Festival del 1990 e verso le 11 di sera telefonai a casa per salutare i miei genitori. Avevo la mania di avvisarli, di fargli sapere dove fossi, persino di tirarli giù dal letto pur di fornire latitudini e coordinate: “Mamma sono in pizzeria, papà entro al cinema”. Non li trovai. “Saranno a Letojanni», mi dissi, «e li cercai prima a casa di uno zio e poi da mia cugina Nina». Dalla tribù familiare, alla fine, la voce lontana di un altro parente: «“Che cazzo ci fai tu lì?”, “eh Rosà, tuo padre si è sentito male”, “È morto, vero?”. Ballava con mia madre, disse “ho dimenticato le sigarette, vado a prenderle”, lo trovarono nel parcheggio, vicino alla macchina, alla festa di Carnevale. Fu una botta spaventosa.
All’epoca non c’erano ancora i cellulari e mi misi al volante anch’io. Raggiunsi il villaggio Valtur di Pila, in Val D’Aosta, per parlare con mio fratello. Aprì la porta della sua stanza alle 6 del mattino, era molto assonnato e non capiva: “Da adesso dobbiamo fare da soli, Beppe. Papà non c’è più”. Arrivammo stravolti all’aeroporto di Torino che l’alba era passata da un pezzo.
Eravamo in lista d’attesa e andai dritto dall’addetto alle partenze. “Senta, scusi. Io e mio fratello abbiamo appena perso nostro padre, quindi su quel volo per la Sicilia dobbiamo salire e su quel volo saliremo. Possono fermarci soltanto i Carabinieri”.
Pronunciai le parole senza enfasi, con un dolore che lo investì in pieno. Fu umano. “Non si preoccupi, partirete”. Papà non sopportava l’idea di perdere un figlio, ripeteva spesso: “Voglio andarmene prima di voi”. Il signore lo accontentò».

Anche per questo, dice, guardando oltre il vetro di una finestra che domina dall’alto la città: «Al Festival vado malvolentieri e quando in tv passa un’immagine del
Teatro Ariston che non riconosco, penso: “Ah, dev’essere l’edizione del ’90”».

Da allora, ragiona: «Per stare male mi basta avvicinarmi a Sanremo, vedere il mare a sinistra dietro una curva e tornare subito a quel momento». Non sarà tra sindaci e canzoni, neanche a febbraio. «Eventualmente, mi piacerebbe andare a Sanremo a sorpresa. Senza che nessuno sappia niente. Entrare all’Ariston per sorprendere veramente Baglioni, senza microfono, da una porta posteriore, come uno spettatore qualunque: “Claudio, passavo da qui, dovevo comprare un bouquet a mia moglie”.

Ma temo non si possa fare. Dovrei dirlo a qualcuno dell’organizzazione e un minuto dopo lo saprebbero tutti». Le note – tutto torna e nulla si cancella – ha invece
deciso di suonarle da Radio Deejay, lo stesso network con il quale iniziò e per il quale, più di 27 anni fa, andò da inviato nella città dei fiori. Il programma si intitola Il Socialista, va in onda sulla sua pagina Facebook e ha l’aria leggera di Alto gradimento: «La radio è sempre quella, musica e parole, è una cosa che per assurdo non esiste» e al suo interno c’è tutto il Fiorello di ieri e di oggi. Lo sperimentatore che da adolescente adorava Foxy John: «Avrei ucciso per andarlo a sentire dal vivo» e animava di anglismi: «everybody, get down» i microfoni di Radio Master Sound ad Augusta: «80 chilometri a nord di Tunisi, piena zeppa di militari della Marina», il luogo che accoglie più migranti in Italia, il doppio di Lampedusa. Emigrò per cercare fortuna anche il sabotatore dei villaggi vacanze che si vestiva da Papa e organizzava finti matrimoni a Ferragosto. Emigrò e si trasformò in inventore di programmi, personaggi e gag sulle quali il primo a doversi divertire è proprio lui «altrimenti non funzionano».

L’uomo che è astemio, ma beve mirto: «Per me è come uno sciroppo e male non può fare, ha visto i sardi? A 99 anni sembrano adolescenti». Che raccoglie il filetto di baccalà caduto per terra davanti allo sguardo attonito del cameriere: «Non mi guardi come mia moglie, quando faccio così lei si indigna». Che trangugia nella sola mattinata «una decina di caffè», ma da quando ha imparato a dormire presto si sveglia all’alba. L’ex ragazzo che si cruccia per l’Italia calcistica: «Ma proprio il giorno dopo l’eliminazione con la Svezia la dovevamo fare ’sta intervista?

Che umore posso avere? Io l’estate prossima che faccio? Guardo il beach volley?» e a un tavolo del Rome Cavalieri, ricorda di come da Don Chisciotte senza portafoglio, a compiere l’impresa e a superare gli ostacoli, convinto come Cervantes «che il miglior condimento che ci sia è la fame», fosse proprio lui.

Aveva molta fame da ragazzo?

A Brucoli, la vista del primo villaggio costruito nel ’75, mi fece la stessa impressione che coglie il turista davanti ai grattacieli a New York. Salivamo su una montagnola, guardavamo oltre i cespugli e sognavamo la nostra America. Chi ci lavorava ne parlava mitologicamente: “Compà, perché lo chiamano villaggio?”. “Come te l’hai a spiegare? Non è un albergo, ci sono le capanne, non c’è il direttore, ma ’u capovillaggio e la sera ballano tutti nudi, scalzi, con i parei, le tette di fuori, la marijuana libera. Hai presente Vuudstocche?”».

A cosa aspirava allora?

«A vedere da vicino Sodoma e Gomorra, a godermi quel ben di dio, a perdermi nei rumori. Quando riuscivamo a infilarci nel villaggio di nascosto, i vigilanti, tutta gente del paese, ci cacciavano a pedate: “Siete ospiti?”, “Certo, camera 348”, “E come no? Andate via subito che altrimenti  perdiamo ’u travagghio”. C’era da capirli. Il lavoro era ambitissimo. Entrai come facchino di cucina, al rango più basso della scala, ma una volta diventato cameriere guadagnavo già 900 mila lire al mese. Con le ferie pagate. Più di quanto guadagnasse mio padre. Un terno al lotto. Dopo aver venduto le verdure in mezzo alla via, aver fatto il muratore, il meccanico e anche il telefonista in una ditta di pompe funebri, il villaggio era un bel salto per me».

Voleva diventare capovillaggio?

«Ero uno dei pochi a non avere quell’ambizione. Significava riunioni sindacali, uffici del personale, carabinieri, Usl, fornitori. La burocrazia da cui volevo stare alla larga. Ero stato assunto a tempo indeterminato, poi, dal nulla, arrivò l’occasione di Milano. Bernardo Cherubini, il fratello di Jovanotti, mi venne a vedere per caso e parlò di me a Claudio Cecchetto. Lui mi invitò ad andare a Milano, presi un aspettativa di 6 mesi. Mi dissi “Poi vediamo” e quindi partii».

A Milano?

«A Milano, almeno all’inizio, mi trovai malissimo. Venivo da anni selvaggi, con un pareo intorno alla vita, a piedi scalzi, con i calli così spessi e duri che ci spegnevo i mozziconi di Marlboro».

Fu difficile rimettersi le scarpe?

«Difficilissimo fu entrare a far parte della vita reale. Della vita civile. Ero Tarzan. In città non impazzire era complicato».

Si sentiva incivile?

«Non ero incivile, venivo dal paradiso. La prima volta che entrai in panetteria, andai verso il bancone e chiesi del pane. Ero abituato al buffet, a non pagar nulla,
a non avere idea delle file e delle attese. Mi guardarono malissimo e mi trattarono anche peggio: “Scusa, ma tu l’hai preso il numerètto?”. Io non sapevo neanche cosa fosse, il “numeretto”. “Non ho capito”, “Uè terra, c’è tanta gente, devi prendere il numerètto e aspettare”. Pensi che razza di corso d’aggiornamento rapido rappresentò per me Milano».

Con Cecchetto come andò?

«Con Cecchetto, che a quel tempo era dio, per mesi, feci la pianta. Non muovevo un dito. Stavo zitto e in assenza del mio pubblico, dei miei applausi e del contatto

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The Godfather [Il Padrino] - Dietro questo nickname si cela il nostro fondatore e amministratore unico TONY ASSANTE, più grigio ma MAI domo. Il logo (lo chiedono in molti) è il simbolo dei FANS di Elvis Presley (Cercate il significato in rete).

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