Resoconti

Presentazione 7°cd Sorrisi

STRADA FACENDO

Gli anni Ottanta si aprono all’insegna di un album destinato a fare letteralmente epoca. Uno di quei rari dischi che posseggono sia lo “scatto bruciante” del centometrista, che la capacità di “reggere la distanza” del maratoneta. Un album che ha appassionato più di una generazione (lo stesso titolo è presto diventato “proverbiale”) e che, ancora oggi, a distanza di trent’anni dalla pubblicazione, suona come solo un gran disco pop sa fare.A dispetto delle sue qualità e dello straordinario successo, “Strada facendo” ha avuto una gestazione insolita e la strada che ha portato alla sua realizzazione è stata tutt’altro che agevole. Ripercorriamola insieme.”Il disco partì in modo strano – ricorda Baglioni: prima venne scelto il pilota (l’arrangiatore/produttore inglese Geoff Westley) poi l’automobile”. In effetti, quando Baglioni approda ai Manor Studios di Oxford (lo studio nel quale l’album sarà registrato), il disco che conosciamo è ancora di là da venire. Sebbene il suo autore (che, ancora una volta, firma musica e testi di tutti i brani) abbia lavorato per più di un anno in un isolato “buen retiro” sul lago di Como (Moltrasio), al momento di entrare in sala il materiale pronto per essere registrato è davvero pochissimo. Moltissime le idee, molti gli spunti, molti appunti, annotazioni e cenni, ma ancora nulla di definito. Ed è proprio questo il primo, grande, elemento di rottura con il passato. L’uomo e l’artista sono cresciuti e l’orizzonte espressivo nel quale si sono mossi fin ora, va ormai stretto a entrambi. Baglioni avverte il bisogno di una svolta, che gli apra nuovi spazi e nuovi linguaggi. La risposta sarà un cambio radicale nel modo di scrivere. La scrittura si trasforma e si arricchisce. Si fa meno immediata e più ricercata, meno istintiva e più riflessiva, meno impulsiva e più elaborata. Un approccio alla composizione del quale, sin dagli inizi, c’era stata più di una avvisaglia (pensiamo, ad esempio, la lunga e complessa gestazione di un brano come “Questo piccolo grande amore”, la passione per le modulazioni e i cambi di tonalità, l’intrecciarsi di più melodie in uno stesso brano o il rincorrersi di citazioni e rimandi armonici e melodici tra un brano e l’altro), ma che, da “Strada facendo” in poi, diventa un modo completamente nuovo – più maturo, più consapevole, più articolato – di affrontare l’intero processo creativo. Se fino a “E tu come stai?”, il rapporto tra Baglioni e la composizione, per quanto personale era, almeno sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro, più “tradizionale” (prima venivano armonie e melodie – al pianoforte o alla chitarra – e poi, una volta che la canzone aveva assunto quella che sarebbe rimasta la sua forma definitiva, si lavorava ai testi) ora il lavoro di costruzione è più meditato, più frammentato, più complesso. L’autore non si ferma mai alla “prima intuizione”, né alla prima stesura, per quanto buone possano apparire. Ma scandaglia il materiale in profondità, lo smonta e lo rimonta, lo mette in discussione sottoponendolo ad ogni sorta di verifica, affrontandolo da ogni possibile angolazione. Un procedere che ricorda sempre più da vicino il modo nel quale molti grandi definiscono il rapporto con la creatività: dieci per cento “traspirazione”. Nasce qui quel gioco di composizione, scomposizione e ricomposizione destinato a diventare l’elemento caratterizzante di tutte le produzioni a venire. Un gioco che, in qualche caso, arriva a dare l’impressione di tendere all’infinito (complice anche l’attenzione sempre più rigorosa di Baglioni per ogni aspetto del fare musica: creazione, produzione e realizzazione) e che, se da un lato fa crescere peso specifico e qualtià delle produzioni, dall’altro è, inevitabilmente, responsabile del dilatarsi dei tempi di passaggio tra un disco e l’altro. I fan dovranno, infatti, attendere quattro anni prima dell’uscita dell’album successivo (“La vita è adesso, 1985), mentre quattro/cinque anni risulterà, d’ora in poi, l’intervallo medio tra una produzione in studio e l’altra. Ciò che più colpisce, però, è che questo minuzioso lavoro di composizione (che riguarda soprattutto le musiche, mentre la gestazione dei testi, supera la fase di incertezza iniziale, si rivelò piuttosto fluida) non toglie nulla in freschezza all’album; non lo appesantisce. Al contrario. Da questa “faticosa” rivoluzione la scrittura esce fortificata. Di più, non meno ispirata. “Strada facendo” suona, infatti, fresco, leggero e immediato come nessuno degli altri album precedenti e le melodie – in puro stile Baglioni – colpiscono al primo ascolto e non smettono di prendere ed emozionare. Pregio questo che non appartiene solo alla celeberrima title track, ma a tutti i brani, molti dei quali (“I vecchi”, “Le ragazze dell’est”, “Fotografie” o “Via”) non hanno mai smesso di essere richiesti e di trovare posto nelle scalette delle esibizioni live. A chi ascolta, “Strada facendo” appare, quindi, come una di quelle felici realizzazioni architettoniche nelle quali volumi, spazi e linee sono talmente belli, ben distribuiti e leggeri da non lasciar nemmeno intravedere la complessità del progetto e la difficoltà dei calcoli strutturali che hanno reso possibile la loro realizzazione.Questo nuovo procedere creativo, tuttavia, si rivelerà uno degli elementi alla base delle difficoltà nel percorso di gestazione del disco. Non è difficile immaginare, infatti, come questo gioco di composizione, scomposizione e ricomposizione possa aver lasciato spazio ad una personalità forte e ricca di talento creativo e visione organizzativa quale quella di Geoff Westley. Arrangiatore e produttore, ma anche pianista e autore, Westley a una concezione decisamente personale sia del metodo di lavoro che del progetto e trova nel materiale ancora grezzo di Baglioni l’occasione per affrontare il lavoro quasi si trattasse di una creatura propria. E dato che talenti e professionalità sono secondi solo al suo proverbiale carattere (pochi anni prima – 1978 – Westley ha prodotto “Una donna per amico” di Lucio Battisti e la leggenda vuole che quando lui entrava in studio, Battisti uscisse, e viceversa), la miscela diventa davvero esplosiva. Westley interpreta in maniera piuttosto “estensiva” il proprio ruolo. Si sente e di fatto, opera più come un “regista”che non come un “operatore/montatore” e tende a considerare l’artista alla stregua di un “attore” che, al massimo, può concorrere a definire la “sceneggiatura”. Posizione difficilmente conciliabile con l’idea che Baglioni ha di sé, del proprio ruolo di artista/autore e del lavoro che ha in mente. Risultato: quando Baglioni entra in sala e trova i propri appunti “assemblati” da Westley, che gli chiede di cantare delle “voci guida” (il cantato – anche senza testo – che serve come riferimento durante la lavorazione di un brano) su pezzi di fatto da lui costruiti, la tensione delle forze raggiunge lo zenith. Il progetto è sul punto di saltare. E, probabilmente, andrebbe davvero a finire così, se non fosse per un paziente ed efficace lavoro di mediazione – linguistica, personale ed artistica – svolto da Fabrizio Intra (allora direttore artistico della CBS), che riesce a costruire e tenere in vita il delicatissimo equilibrio sul filo del quale il lavoro potrà riprendere e giungere al termine. Pausa di riflessione. Baglioni ne approfitta per riprendere il controllo del proprio materiale. Comincia, così, un lento lavoro di decostruzione e ricostruzione dei propri pezzi, per quello che, nelle intenzioni del musicista romano, dovrà essere un album più “personale” e meno “osservatorio” di quanto non siano stati, invece, dischi come “Solo” ed “E tu come stai?”. E’ esattamente in omaggio a questo spirito che, a lavoro concluso e missaggi ormai ultimati, nasceranno (in poche ore, “scritte – come ricorda lo stesso Baglioni – direttamente sulla pelle”) i quattro tempi: (“Uno”, “Due”, “Tre” e “Quattro) di quella “piccola storia che continua”, comunemente ribattezzata “51 Montesacro”. Una sorta di mini biografia cantata, che lega come un “fil – rouge” le otto storie dell’album e nella quale, con la scomposta filigrana di un filmino in “super otto”, prendono vita situazioni, istantanee e personaggi dell’infanzia e dell’adolescenza di Baglioni. Una piccola storia che si ferma nel 1966, alla vigilia del primo vero provino discografico, nel momento in cui il testimone dell’ideale staffetta dell’esistere passa dall’uomo all’artista. Colpisce, nel testo, la poetica ingenua di quel “Callo pucciù (“Claudio non c’è più!”) di un Baglioni bambino che, coprendosi gli occhi con le mani e non vedendo più niente, pensa di diventare invisibile egli stesso. Grazie a 51 Montesacro, “Strada facendo” diventa il primo di una nutrita serie di album che oltre al titolo, avranno anche un sottotitolo: in questo caso: “Canzoni e una piccola storia che continua1. Completata finalmente la struttura dei pezzi (composti quasi tutti al pianoforte ad eccezione di “Strada facendo”, “Fotografie” e dei quatto tempi di 51 Montesacro) e ricondotto ad equilibrio il rapporto tra artista e produttore, Westley darà al disco un contributo determinante. Sua l’indicazione dello studio di registrazione (“The Manor”) nel cuore dell’Oxfordshire, che all’inizio degli anni ottanta è uno dei luoghi più sofisticati e di tendenza per le produzioni musicali. Le registrazioni si devono a Richard Manwaring, con la collaborazione di Marlis Duncklau, Geoff Calver, Steve Prestage, Steve Tayler, Chris Dibble, mentre il trasferimento su disco avviene agli studi “The Town House” di Londra ad opera di Ian Cooper.Di Westley anche la scelta dei musicisti, tra i quali spiccano strumentisti di primissimo piano della scena internazionale; professionisti che vantano collaborazioni con alcuni tra i più grandi nomi dell’universo rock – pop, come Stuart Elliot e Pete Van Hoke (batteria), Andy Brown (basso), Paul Keogh, Ray Russel e il grandissimo Phil Palmer (chitarre), Frank Ricotti alle percussioni, oltre, naturalmente, allo stesso Westley (piano, synth, organo, archi e voce). Un “cast” di altissimo livello che contribuisce a rendere “Strada facendo” un album unico, con un “groove” straordinario ed ancora attuale e una grande vocazione “live”. Sonorità e arrangiamenti, infatti, si prestano in modo particolare ad essere eseguiti dal vivo e sarà proprio il solido sound di questo album ad inaugurare la lunga e fortunata stagione dei grandi progetti live di Baglioni.Al talento di Westley si devono – oltre al clima sonoro nel quale l’album si muove – alcune intuizioni realizzative particolarmente felici, che soddisfano appieno il desiderio di Baglioni di dar vita a un album internazionale, caratterizzato da una forte connotazione sonora di pop inglese. Tra queste – ad esempio – l’idea di accellerare il metronomo di “Via” che, pur essendo nata come brano veloce, non aveva nell’impostazione iniziale un taglio così “rock” e non pulsava in maniera altrettanto vibrante; la bellissima partitura dell’orchestra d’archi de “I vecchi” (l’orchestra è quella di una “vecchia conoscenza” di Baglioni: Ruggero Cini, con Baglioni nel primo album – “Claudio Baglioni”, 1970 e in “E tu come stai?” , 1978) o i cori con cui si chiude il trascinante “dodici – ottavi” di “Notti”.Talune divergenze di impostazione o colore, tuttavia, rimasero soprattutto laddove Westley indulgeva in soluzioni eccessivamente enfatiche, mentre Baglioni preferiva ambientazioni più “magre” e sobrie. Alcuni arrangiamenti vennero, quindi, rifatti, in particolare per quei brani il cui spirito, una volta completati i testi, mutava fino al punto di richiedere una maggiore essenzialità. E’ il caso, ad esempio, di “Le ragazze dell’est”, che nella visione di Westley era più oleografica e conteneva, addirittura, una sezione centrale in stile rapsodia. Scelte decisamente lontane dalla visione di Baglioni che aveva, invece, in mente un “abito” sonoro più scarno ed essenziale. Il pezzo, infatti, era stato ispirato dall’esibizione estemporanea di una ballerina in un locale di Bratislava. La perfomance della ragazza si era prolungata oltre ogni limite, tanto che la band aveva smesso di suonare e l’aveva abbandonata a se stessa, con il solo accompagnamento di una batteria elettronica. Un’atmosfera surreale dal sapore vagamente Felliniano, che Baglioni volle ricostruire affidandola, appunto, a poche sonorità: pianoforte, sintetizzatore, basso e, naturalmente, l’anonimo e implacabile incalzare di una batteria elettronica.Una curiosità di quelle che fanno sorridere riguarda, infine, i cori della title track, inizialmente interpretati tutti da Westley. Le parti furono interamente ricantate (da Baglioni, Intra e Paola Massari – moglie di Baglioni – al suo fianco in tutte le produzioni discografiche fino a “Oltre”, 1990), non per problemi di “scrittura” o “intonazione”, ma per ragioni di… pronuncia. Il verso infatti – per il “classico” accento degli anglosassoni che si cimentano con l’italiano – suonava più o meno: “Straida faciendou vedjrai…”. La parte avrebbe perso efficacia e malgrado le insistenze di Westley che la difendeva, sostenendo che una “sonorità” del genere fosse normale per un disco inciso in Inghilterra, venne opportunatamente corretta.Un’ultima citazione merita il bellissimo bianco e nero di copertina, opera di uno dei più grandi fotografi e ritrattisti; un artista che ha immortalato tutti i protagonisti del jet – set musicale, del mondo del cinema e della moda: quel David Bailey alla cui vita è ispirata una delle pellicole culto della storia del cinema: “Blow up”, firmata nel 1966 da Michelangelo Antonioni.”Strada facendo” – come lo ha definito lo stesso Baglioni – è un “disco madre”, che rappresenta la prima grande svolta artistica nella carriera del musicista/autore/interprete romano. Un “big-bang” creativo senza il quale, probabilmente, non solo un album come “La vita è adesso” non sarebbe mai nato, ma molto del grande pop degli anni’80 non avrebbe suonato allo stesso modo.

Trascrizione a cura di Sabrina Panfili, in esclusiva per: http://www.saltasullavita.com e https://www.doremifasol.org

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