In evidenzaIntervisteStampa

Baglioni, dovevo fare un film con Battisti

con voi copertina verticale piccolaBaglioni “ConVoi” a Nordest: «Dovevo fare un film con Battisti»

di Giò Alajmo

Claudio Baglioni torna a Nordest con il suo “ConVoi“, spettacolo complesso che per tre ore racconta la costruzione di una storia musicale in un palco fatto come un cantiere in cui le canzoni di quasi mezzo secolo di attività si intrecciano in un percorso per nulla casuale. Questa sera sarà al PalaFabris di Padova, sabato al Forum di Pordenone, lunedì 7 al palasport di Verona per tre date a nordest in sequenza.

IL CONCERTO – Tre ore di concerto, oltre trenta canzoni, il cantautore romano che ha da poco rilasciato nuove canzoni raccolte in un album e si appresta a replicare, ha una nuova idea di spettacolo che si aggiunge alle tante inventate in passato:
«È un concerto molto musicale, con l’idea di un cantiere ideale ma anche fisico, con tanto di impalcature e ponteggi sul palco che via via prendono forma attraverso luci e linguaggi, con 13 fra musicisti e coristi, e con le diverse voci che attraversano i generi e le epoce con i passaggi cardinali delle cose che ho fatto ma anche un senso dell’edificazione, della costruzione in verticale che nell’ultima parte diventa sogno e fa apparire alla fine appare una città nuova che simbolicamente è l’idea che si debba diventare tutti operai operosi, e fare la nostra parte».

Metafora dell’Italia di questi tempi?

«Un po’, anche se mi sembra che siamo tutti nel porto delle nebbie, nella confusione, la lotteria dell’ultimo arrivato con l’ultima idea. La ricostruzione prevederebbe una maggiore coscienza collettiva. L’ultima volta fu dopo la guerra, un fatto traumatico. I miei genitori e quelle generazioni passarono un tempo ben preciso in cui la certezza del domani era vissuta come un’affermazione positiva; era la generazione che sapeva che il giorno dopo sarebbe stato migliore del giorno prima, perché veniva da un cataclisma. Penso sia stato anche di incitamento a fare bene il proprio mestiere. In questa confusione penso invece che tanti abbiano voluto fare qualcos’altro o più facilmente cercare una via di conquista del successo, del benessere attraverso percorsi molto facilitati o casuali».

Come i talent televisivi?

«Di sicuro la tv ha dato questo messaggio, pubblicizzando l’idea che si può diventare noti senza saper far niente. Qui c’è un po’ l’idea di fondo. Come Garcia, l’allenatore della Roma, ha detto di aver “riportato la chiesa al centro del villaggio”, io cerco di riportare la musica al centro delle arene».

LUCIO BATTISTI – Molti considerano la tua carriera come un’evoluzione di ciò che fece Lucio Battisti, lui che rivoluzionò la canzonetta italiana, tu che spostasti la visione del “privato” nella canzone ancora un po’ più in là.

Che rapporti hai avuto con Battisti?

«Lo incontrai a Los Angeles nel ’74/’75. Ero lì per un giro di concerti e lui stava registrando il disco americano su cui la Rca contava tanto. Forse la prima operazione di marketing di un’artista italiano in Usa, che in realtà non andò molto bene. Io avevo grande soggezione, lui era il mio idolo anche se tre o quattro dischi in classifica li avevo già piazzati anch’io. Mi viene in mente la sua gaffe, perché il direttore della Rca californiana alzò il bicchiere e disse “brindo al numero uno”, guardando me che ero in classifica, e Lucio si girò e disse “grazie!”».

In fondo lui aveva fondato la sua etichetta “Numero Uno”. Di cosa parlaste?

«Della cultura americana. Io ero sorpreso dalla loro tv piena di pubblicità chiassosa. Lui ci guardava dall’alto in basso, come dei provinciali, affascinato invece dall’America. per me Lucio è stato uno dei tre quattro che hanno rivoluzionato la musica italiana, e continuo ad avere una concezione altissima del suo lavoro».

Ti sei sentito una specie di erede?

«Un po’ sì, ma almeno lui si è liberato dal peso dei testi lasciandoli a Mogol, a Pannella. Da parte mia invece c’è un attaccamento a una melodia più da ’800 italiano, pucciniano, però è vero che alcuni aspetti sono simili. Ci sono scansioni musicali in “ConVoi” e “L’ultima cosa che farò” che un po’ battistiane nelle divisioni ritmiche lo sono».

E il cantare il privato in un periodo in cui il sociale era d’obbligo?

«Sì la divisione fra chi faceva musica impegnata e chi no era netta. Io e lui eravamo da una parte e gli altri dall’altra. E un giorno portarono proprio a noi due un soggetto cinematografico, serio, non un musicarello, che sembrava un “romanzo criminale” dei nostri giorni, ambientato a Roma, con io e Lucio che avremmo dovuto essere due ragazzotti di periferia che si barcamenavano tra furtarelli e cose simili, con un finale drammatico in cui uno dei due, non ricordo chi, moriva, e un lungo discorso finale sulla motocicletta»

Non scritto da Mogol spero, che di motociclette e potenza dei motori ne capiva poco!

«Il motore da 10 HP? Già, ma Mogol ne ha scritte tante di cose strane che sono passate lo stesso. Penso a “Un nuovo amico” di Cocciante in cui scrive “andrei a piedi certamente a Bologna per un amico in più”: ma partendo da dove? Boh!».

IL PROSSIMO DISCO – Questo disco che hai promesso per fine anno?

«Ogni tanto vado a riprendere miei appunti, sono cinque anni che scrivo testi e musica a mano, non registro, mi sembra un segno più nobile di una registrazione. Poi o lo rileggo o lo faccio rileggere da qualcuno, anche per non dare un suono preciso con la voce. La partitura credo regali ancora una emozione, non solo un codice alfanumerico ma qualcosa di più. Ho già intelaiato otto dieci pezzi e durante l’estate dovrei finire approfittando della pausa del tour che riprenderà in autunno».

Sempre con la formula di far uscire un pezzo ogni tanto come per “ConVoi“?

«Ha funzionato per il mio tipo di lavoro perché ho trovato una cadenza che non conoscevo e ho dovuto dare a ogni brano completezza e valore, come se fosse un’operina finita, a prescindere dal calderone. È psicologicamente difficile, perché è come farsi concorrenza in casa e ti viene la sindrome del saltatore in alto, che devi ogni volta andare un po’ più su. Non so. Penso che manterrò questa cadenza con un calendario diverso, magari presentando brani a gruppi».

Come al tempo del lato A e lato B dei 45 giri?

«Belli i singoli di una volta, con il rapporto che poi si rovesciava come per “Sabato pomeriggio” che aveva “Poster” sul retro e poi Poster prese il sopravvento. Un’altra cosa bizzarra fu quando portai “Questo piccolo grande amore” alla Rca e il direttore artistico Riccardo Michelini ascoltò e sentenziò che “può essere un buon lato B”. Allora con Vince Tempera scrivemmo al volo “Caro padrone”, un pezzo un po’ umoristico e politico, non bello, e credo che ci siano ancora delle copie in giro con “Caro Padrone” lato A e “QPGA” lato B».

“Caro padrone” che fine ha fatto?

«Non si butta via niente! Il tema melodico l’ho ripreso nella versione di QPGA con gli ospiti: era in “Sissignore”, che parla della naia, e poi nel momento del compleanno aperto da Renzo Arbore, Buon Compleanno».

SANREMO E LA TV – E Sanremo che ti ha visto protagonista sia pure come ospite?

«Me l’ero fatto mancare per 30 anni, poi per la prima volta ho capito che ho fatto il mio mestiere. Ho ricevuto tantissimi messaggi di complimenti dai miei colleghi, contenti che finalmente si sia sentito un cantante musicista. È una trasmissione molto vista, rispetto ad altre che ho fatto. Mi piacerebbe che Sanremo tornasse a essere festival di musica e musiche staccandosi dall’ossessione che deve contenere tutto ed essere ipersensazionale. Non credo che perderebbe neanche ascolto. Ed è ormai l’unica occasione per sentire un po’ di musica in tv»

E Fazio?

«Si dà da fare. Ma è il tuttismo della tv che la distrugge. Se fai una tv di contenuti, diventa di genere, ma pretendere di metterci tutto, show, canzoni, trash, politicamente corretto, scorretto, provocazioni eccetera, diventa impossibile».

Hai scritto “V.O.T.” sui “vuoti con la faccia da idioti che vanno in tv. Fare qualcosa di tuo?

«Me l’hanno proposto anche quest’anno. Un artista con una carriera lunga può presentarsi in tv facendo una sorta di racconto monotematico, ma se si uscisse dal clichè degli ingredienti che fanno parte del recital da protagonista sarebbe un po’ più interessante. Io sto sul palco dal 1964, avrei cose da dire, posso agganciarmi alla storia delle canzoni per raccontare la grande storia del Paese, ma c’è il tranello dell’autocelebrazione che è pericolosa ma ti viene quasi spontanea. Poi non va bene che tutto si misuri su chi c’è, qual è l’ospite, è tutto pretestuoso. Se mi dessero la possibilità di fare qualcosa in tv come faccio a volte, senza misurarmi con l’Auditel, 4/5 ore senza angoscia potrei farle».

FESTIVALBAR – Non manca all’industria discografica italiana oggi una cosa come il Festivalbar?

«Probabile. Oggi non sai più dove promuovere i dischi. Nè se sei affermato né soprattutto se sei agli esordi. Io a Sanremo non sono mai andato in gara, ma un Festivalbar l’ho vinto. Salvetti era un personaggio unico. Una volta gli diedero da organizzare il primo premio serio basato sui dischi venduti…».

I “Dischi d’oro”, che fu boicottato dagli impresari che volevano dimostrare di avere il loro peso nella vita degli artisti e scelsero proprio quel momento.

«Esatto, fu rovinato sul nascere. Salvetti era venuto a convincermi ad andare. Venne in un ristorante dopo aver fatto il giro dei locali per scoprire dov’ero e fra le tante cose, oltre a prendere il libretto degli assegni dicendomi “scrivi tu la cifra” si sbilanciò e disse: “Ti rendi conto che hai salvato l’Italia dalle Brigate Rosse?”. Secondo lui le mie canzoni avevano creato un altro mondo. A proposito di impegno e disimpegno».
Va detto che se hai cantato benissimo il privato e l’amore, nel tuo repertorio il pubblico e il sociale non mancano affatto…
«La vita riserva strani destini. Mi sono incrociato con Gino Strada e mi ha abbracciato dicendomi: “Hai fatto cose bellissime”. E io: “Senti chi parla!”. La vita, da un certo punto in poi va così. Così va il mondo. Io cerco di viverla con leggerezza. Un po’ come Gagarin che si alza sul pianeta per poterlo guardare da lontano».

LE NUOVE CANZONI – Cos’è cambiato nelle nuove canzoni rispetto alle vecchie?

«Non trovo grandi differenze, e non so se sia un pregio o un difetto. Non vedo sovverttimenti o cambiamenti di stile. Mi sembra che facciano parte di un corredo di un tessuto che sempre esistito. Poi ci sono episodi più fortunati e intuitivi».

Qual è la canzone che più ti rappresenta secondo te, che hai più nel cuore, a prescindere dal fatto che tutti ti vedono come l’uomo di QPGA?

«Mi specchio in cose insospettabili tipo “Sono io l’uomo della storia accanto” e incredibilmente “Viva l’Inghilterra” che è una canzonetta in cui mi fa piacere far sapere che sono stato un giovane cazzaro, un po’ cialtrone, forse per la nostalgia dei vent’anni, del tempo che non tornerà. Quando la canto mi libero da tutto e potrei farla anche sul marciapiede di una strada, da solo».

Grazie a GAZZETTINO.IT

The Godfather

The Godfather [Il Padrino] - Dietro questo nickname si cela il nostro fondatore e amministratore unico TONY ASSANTE, più grigio ma MAI domo. Il logo (lo chiedono in molti) è il simbolo dei FANS di Elvis Presley (Cercate il significato in rete).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Pulsante per tornare all'inizio