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Bentornato Baglioni, ti stavo aspettando

Bentornato Baglioni, ti stavo aspettando da troppo tempo

Il nuovo album è un capolavoro: cambi repentini di accordi, una melodia che si arrampica su armonie complesse che però hanno la caratteristica unica, rara, preziosa di non suonare mai difficili all’ascoltatore

Pensate al Vittorio Gassmann che, negli ultimi anni della sua vita, faceva Vittorio Gassmann, lì a calcare sui suoi birignao, sulla voce greve capace di parabole e iperboli senza competitor, uno che avrebbe saputo da senso anche alla lettura di una pagina di D’Avenia, per capirsi. Era sempre Vittorio Gassmann, il mattatore, l’attore più amato o uno dei più amati del nostro teatro e del nostro cinema, l’incarnazione addirittura del nostro teatro e del nostro cinema, non ce ne voglia Carmelo Bene, che tanto come Gassmann è morto e anche volendo non ce ne potrebbe. Un personaggio gigantesco costretto, immagino solo da un se stesso stanco, a fare il verso a se stesso, un Acab che si era decisamente disilluso prima o poi di prendere Moby Dick.

Ecco, ascoltando quel che Baglioni ha fatto, parlo di inediti, negli ultimi dieci, quindici anni, ho sempre avuto quel tipo di sensazione lì, un artista gigantesco, uno dei più grandi autori di canzoni che il nostro paese abbia mai avuto e visto transitare di qui, lì a inseguire un talento che sembrava in qualche modo sfuggito di mano, quelle caratteristiche che lo hanno reso un top player diventate birignao, toni marcati, in qualche modo diventato una macchietta, non si leggano queste parole con intenti denigratori, massimo rispetto all’artista, più come una constatazione (poco) amichevole dei fatti. E dire che in un passato che grazie alla potenza di quanto fatto sembra assai meno passato di quanto non sia, Claudio Baglioni non è solo stato un campione di vendite, una delle voci e delle penne più amate in Italia, ma anche un innovatore, il suo ostinato mettersi a giocare con le armonie, prima, e con le parole, poi, penso ai lavori fatti negli anni Ottanta e gli anni Novanta, album che da Strada Facendo e la Vita è adesso, da una parte, ma soprattutto Oltre, il suo massimo capolavoro e uno degli album fondamentali della nostra musica leggera, al pari di un Lucio Dalla, di un Creuza de Ma di De André, di un La pianta del thè di Fossati, Liberi liberi di Vasco Rossi, Oro incenso e birra di Zucchero o della discografia di Lucio Battisti, lo dico senza paura di essere smentito, e poi Io sono qui Viaggiatore sulla coda del tempo, Sono io – l’uomo della storia accanto ultimo guizzo di vitalità cui ha fatto seguito un concedersi con meno generosità e probabilmente con meno generosità dettata da una minore ispirazione.

Lunga premessa, neanche troppo stando ai miei standard, per dire che l’ascolto del suo nuovo album, il primo dopo sette anni, parlo di inediti, tanti ne sono passati da Con voi, a sua volta giunto a dieci anni dal precedente, in mezzo dei singoli poco illuminati, a seguire altri singoli tutti della medesima fattura e resa. Lunga premessa per dire che l’ascolto del suo nuovo album, In questa storia che è la mia mi metteva un certo disagio, l’idea di doverlo ascoltare, cioè l’idea di dovermi confrontare, questo pensavo e temevo, con un lavoro di quelli irrilevanti, parlo di irrilevanza nei confronti di una carriera costellata di bellissime canzoni contenute in bellissimi album, sfido io a trovare tracce minori negli album che ho su citato, irrilevanti se non fastidiosamente nocivi.

Mettiamoci pure, non lo posso certo tenere fuori da questo discorso, che negli ultimi anni Baglioni è stato al centro di una polemica che in qualche modo ha mosso i primi passi a partire da me, poi esplosa prima su Dagospia e poi su Striscia la Notizia, con Pinuccio, sempre me come primo motore, seppur non fosse lui l’oggetto delle mie attenzioni, fatto che ovviamente non avrebbe influito sull’ascolto, ma mi sembrava un indicatore di una carriera che su altro che le canzoni stava puntando, gli show, la televisione, il Festival di Sanremo.

Dover stroncare un lavoro dopo aver in qualche modo contribuito, senza neanche volerlo, a mettere in discussione una carriera così lunga, ripeto, io non stavo certo facendo una crociata contro Baglioni, quanto piuttosto contro un sistema dentro il quale anche Baglioni si è trovato a muoversi, mi metteva ulteriormente a disagio, come fosse sintomo di un mio accanirsi contro qualcuno, identificato magari all’esterno come mio “nemico”, nei fatti da me molto amato, almeno in passato.

Chi ha avuto la disgrazia di leggere altri miei scritti sa che sono uso rovesciare certi cliché, quindi iniziare un discorso lasciando intendere che le mie aspettative sono state ribaltate dai fatti, “pensavo di dovermi confrontare con un concerto di quelli che poi fai di tutto per dimenticarteli, al limite abusi di Sambuca e Limoncello,” per intendersi, “e in effetti ho assistito un concerto che neanche l’abuso di Sambuca e Limoncello mi ha permesso di dimenticare, il sapore amaro del fiele che ancora mi riempie la bocca”. L’ho fatto più volte, e devo dire che nel farlo sono pure bravino, essendo quel rovesciamento di cliché a sua volta diventato un mio cliché, un canone che so maneggiare con una certa naturalezza. Quindi a questo punto potrei, dovrei stando a quel canone, dire che l’ascolto di In questa storia, che è la mia, uno dei titoli meno azzeccati della lunga discografia baglioniana, è stata una vera delusione, o meglio, la conferma del fatto che a nutrire pregiudizi a suon di giudizi, cioè non partendo aprioristicamente da posizioni radicate nel tempo, ma continuando a cercare e poi a trovare conferme, ci si azzecca quasi sempre. Solo che, a dispetto del titolo, il nuovo lavoro di Baglioni lo ripone con gesto plastico e muscolare al centro dell’attenzione, almeno della mia.

Nell’anticipare il suo nuovo lavoro, ricordiamolo con un lieve sorriso sulle labbra, Baglioni aveva specificato come di un disco suonato con strumenti veri si sarebbe trattato, come se qualcuno avesse sospettato che il buon vecchio Claudio si fosse dato alla trap, o come se il fatto di fare un disco in cui c’è gente che suona strumenti, vedi alla voce musicisti, fosse qualcosa da ostentare. O meglio, oggi ostentare che si suona dentro in dischi è qualcosa di legittimo, non lo fa quasi nessuno, ma non è certo uno come Baglioni che deve farlo, questo ho pensato. Poi ho sentito le quattordici canzoni che compongono la lunga tracklist, cui si aggiungono ouverture, quattro interludi per piano e voce, e una uscita di scena, ho capito che le parole anche tenere di Baglioni, quel suo rivendicare di aver lavorato a un album alla vecchia maniera, è assai sensato. Perché il nuovo lavoro di Baglioni si pone esattamente dalle parti che furono di Oltre, con molti più anni alle spalle, da quell’uscita sono passati trenta annetti suonati, e con una scrittura che si è fatta volendo anche meno ostentata, lì i giochi di parole erano quasi asfissianti, di quella bellezza asfissiante di una Nastassia Kinski da giovane, per capirsi.

Un album che prova a portare a oggi quella scrittura fatta di cambi repentini di accordi, la melodia mai banale, complice una voce che ovviamente risente un po’ del tempo, ma che rimane una lama sottile, melodia che si arrampica su armonie complesse che però hanno la caratteristica unica, rara, preziosa di non suonare mai difficili all’ascoltatore, ma elitarie, anzi, decisamente popolari, nel senso più nobile e colto del termine.

Anche questo ostinato voler costruire album che siano vere e proprie storie, concept si diceva un tempo, quando gli album esistevano, album come romanzi che hanno un cappello, uno sviluppo della trama, il climax, la soluzione del mistero, un finale rassicurante, qualcosa che oggi, in epoca di ascolti da piattaforme di streaming, sembra quasi un voler profumare le pagine di un libro di carta antica, cercare un abbellimento capace di tenere il lettore sulla pagina quando, è questo il vero miracolo, la storia raccontata, le parole scelte per raccontarla, sarebbero bastate da sole.

Senza mai sfiorare neanche da lontano l’epico scontro, si leggano queste parole con sarcasmo, tra generazione Z e boomer, Baglioni ripresentando la sua scrittura per come negli anni abbiamo imparato a amarla, con le sue canzoni lunghissime, verbose, penso a un brano perfetto come Pioggia Blu, coi suoi cinque minuti e quarantaquattro secondi tipicamente baglioniani in apparenza un omaggio alla retromania, alla propria retromania, nei fatti un brano che semplicemente, si fa per dire, indica una strada regina, di quelle che non possono che ricondurci a casa anche nelle notti senza luna e stelle.

Non fosse che Baglioni è un artista, un signor artista tuttora dotato di quell’artisticità che ci ha deliziato per tutti questi decenni, uno dei più grandi che abbiano calcato le nostre scene, senza se e senza ma, verrebbe quasi da dire che, come un artigiano, il nostro si è messo lì a cesellare mobili che ovviamente non possono tenere il passo di quelli dell’Ikea, meno cari, molto meno cari, con un design che, il Tyler Durden di Fight Club ce lo diceva già oltre venti anni fa, è talmente uguale a se stessa da essere diventata addirittura una forma estetica capace di plasmare il nostro modo di stare al mondo, non possono competere neanche sulla facilità di accesso, provate voi a ascoltare quasi un’ora e mezza di musica con lo smartphone, senza andare avanti dopo pochi secondi, a rischio di perdersi una delle tante evoluzioni che ogni canzoni ha racchiusa in sé, ma talmente unici, quei mobili, da essere preziosi e destinati a finire nelle nostre case, magari in un angolo dedicato al deja-vu, a ricordarci cosa siamo stati e cosa, in fondo, vorremmo ancora essere. Invece no, lui non è un artigiano, non credetegli se vi capitasse di sentirglielo dire, è un artista e un artista destinato a rimanere nel tempo, anche oggi capace di parlarci una lingua viva, vivissima, contemporanea seppur intrisa di classicità.

Durante una conferenza stampa, fatta su Zoom, ognuno a casa propria, distanti ma distanti, Baglioni a un certo punto si è lasciato andare a uno dei suoi calambour, qui presenti meno che in passato, mi ripeto, ma comunque presenti. Ha detto che ha iniziato a fare musica quando la musica si incideva, cioè quando si usava dire “ho inciso un disco”, facendo chiaro riferimento alle tracce, oggi track, che erano vere e proprie incisioni sul vinile, quelle lungo le quali si incamminava la puntina, bei tempi andati. Questo per dire che l’idea di incidere, di lasciare fisicamente un segno, si è fatta largo in lui assai prima di coglierne la vera essenza, incidere è anche quello che fanno gli incisori, appunto, quello che col tempo Baglioni ha provato, riuscendoci assolutamente, a fare.

Se dovessimo datare questo album, non fosse che la voce più matura non lascia dubbi a riguardo, lo si potrebbe serenamente collocare dalle parti di quegli anni Ottanta, volendo anche fine anni Settanta, cui si faceva riferimento prima, i sentimenti tornati a occupare militarmente la scena dopo che per album e album lo sguardo si era spostato su altri stati d’animo che non fossero l’amore, qui molto presente, il male di vivere diventato negli anni protagonista di tante canzoni che sul male di vivere, a questo in fondo servono anche le canzoni, ci hanno detto più di tanti trattati scientifici.

Tempo fa ho scritto come la forma recensione non trovi più in me nessun tipo di fascinazione, sempre che ne abbia mai trovato, e di come, quindi, sia ben lungi da me l’idea di provare a farne una ora. Vi basti sapere che, tra ballate e mid-tempo anche piuttosto spinti, Reo confesso potrebbe serenamente competere con l’immortale Via, da Strada facendo, ricalcandone per certi aspetti gli abiti notturni e strillati, ma con uno sguardo diverso, quarant’anni di distanza saranno pur serviti a qualcosa, In questa storia, che è la mia si candida non solo a essere uno dei lavori più interessanti usciti in questo maledetto 2020, ma direi anche in questi anni Dieci che, Dio volendo, ci toglieremo presto dalle scatole. Un lavoro alto ma con la capacità, il talento è talento, il talento di un artista unico lo è anche di più, di avvolgerci e scaldarci, certo guardandosi alle spalle, ma senza compiacimenti o nostalgie, quanto piuttosto con la perizia di chi sa di saper fare bene qualcosa e quindi decide di farlo e di farlo ovviamente molto ma molto bene.

Non saprei dire se in queste quattordici canzoni si nasconde uno di quei classici che tutti sappiamo a memoria (o dovremmo sapere), non so se, per dire, Come ti dirò o Dodici noteMondo nuovo o Quello che sarà di noi, per citare qualche titolo in un album che però non concede spazi a defaillance, quindi sarebbe da citare nella sua interezza, siano destinate a incamminarsi fuori da questo lavoro per conquistarsi un posto di rilievo dentro la discografia baglioniana, l’impressione è che tutto questo lavoro meriti un posto preciso, quello con su scritto: bentornato, Claudio, qui ti si aspettava da tempo ma ci abbiamo messo un attimo a ripartire da dove ci eravamo lasciati, come in certe vecchie amicizie o storie d’amore tormentate.

Penso quindi a un ritrovato Claudio Baglioni, professione cantautore, e penso a un lavoro importante, degno della sua discografia, che andrà a confrontarsi con un mercato che, questo ci ha fatto sapere Spotify, eletta da FIMI e dai discografici, compresi i discografici che pubblicano Baglioni, a vero e proprio nume tutelare della discografia tutta, vede un 2020 con Tha Supreme seguito da Sfera Ebbasta come artisti più streammati, parola orribile che indica una pratica altrettanto orribile, Mediterranea di Irama come brano italiano più ascoltato, e mi sembra di essere finito in uno di quei film surreali, nei quali le cose non procedono mai esattamente come ci si aspetterebbe se gli eventi seguissero il corso naturale delle cose. Perché è evidente, direi, che un album con canzoni dalla durata media di cinque minuti, messe una in fila all’altra seguendo una logica, un filo del discorso, e quindi scritti e suonate in quel modo perché poi la gente, il pubblico, le ascoltasse in quell’ordine, possibilmente consecutivamente, non può avere nulla a che fare con Mediterranea o le canzoni di Tha Supreme, bravo, eh, ma sicuramente appartenenti non a un altro genere musicale, proprio a un altro mondo.

Certo, se ne parlava settimane fa, se Renato Zero o gli AC\DC sono andati in vetta alla classifica potrebbe andarci anche Baglioni, sempre che andare in vetta alla classifica sia in effetti quello a cui punta un artista nel momento in cui da alle stampe un lavoro così complesso e elaborato, ma direi che almeno soffermarci un attimo a pensare con affetto a chi ha deciso di mettersi in gioco andando a fare una partita a calcio fiorentino mentre sembra che il solo sport praticabile sia FIFA 21 sia quantomeno doveroso.

Claudio Baglioni, a lungo guardato con disprezzo dai chi pensava alla musica come qualcosa di impegnato politicamente, schernito da una certa intellighenzia che non gli perdonava né la grandissima popolarità, né una capacità rara di incontrare il comune sentire della gente, quella stessa gente di cui quell’intellighenzia si sentiva evidentemente superiore, nel volgere del 2020, anno terribile e dolorosissimo, ha tirato fuori un album che, per intenzioni e resa, risulta politico come un manifesto anti-Putin delle Pussy Riot, una voglia di riporre al centro la musica e le parole che oggi sembra al massimo un optional, neanche troppo diffuso, l’invito a fermarsi per ascoltare che diventa sin da subito imposizione neanche troppo amichevole, la negazione perentoria a farsi ascoltare malamente con smartphone o altri ammennicoli. Questo 2020 non finisce mai di stupirci, per una volta tanto, nel senso bello del termine. Bentornato Claudio.

di Michele Monina 04/12/2020 per optimamagazine

The Godfather

The Godfather [Il Padrino] - Dietro questo nickname si cela il nostro fondatore e amministratore unico TONY ASSANTE, più grigio ma MAI domo. Il logo (lo chiedono in molti) è il simbolo dei FANS di Elvis Presley (Cercate il significato in rete).

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