ResocontiStasera a casa di Luca

Come fermare il tempo in questa storia

La recensione di Luca Bertoloni per lo show su It'sArt "IN QUESTA STORIA CHE E' LA MIA" di Claudio Baglioni

In questa storia che è la mia nella sua versione da vedere è qualcosa di unico, dalla difficile definizione. Proverò ora a cercare una sua definizione insieme a voi.

Innanzitutto, in questo nuovo prodotto Claudio sistema tutto ciò che non è andato dei tentativi precedenti di fare qualcosa del genere.

Il primo modello di riferimento è – senza dubbio – il FilmOpera di Q.P.G.A. Gli elementi che non funzionavano all’epoca vengono tutti estirpati: l’uso delle immagini di un film, il ricorso a disegni, una narrazione affidata esclusivamente al dialogo tra immagini e canzone. Vi prende però tutto quello che funzionava: innanzitutto, la costruzione narrativa polifonica e lo sdoppiamento narrativo. Claudio è sia personaggio, narratore e spettatore in Q.P.G.A.: il suo “io” infatti nel FilmOpera si replicava nell’alter ego-Andrea, nella voce narrativa e nel sé stesso adulto che osservava la storia del passato, talvolta sostituendosi ad Andrea. Quest’idea – forte – dello sdoppiamento (la stessa idea sottesa a Strada facendo, e, soprattutto, ad Oltre) si sostanzia in uno sdoppiamento doppio: nei suoi due alter ego (bambino e giovane), e nella sua voce e nel suo corpo di adesso. È proprio dall’incastro di queste narrazioni, e dei punti di vista che ne conseguono, che la drammaturgia di In questa storia che è la mia viene messa in scena.

L’altro modello è, neanche a dirlo, Al Centro. In Al centro non c’era una vera e propria narrazione interna, quanto piuttosto una narrazione esterna dettata dalle parole che Claudio stesso pronunciava, e dall’ordine delle canzoni. Non dalle canzoni, ma dal loro ordine. La parte narrativa era decisamente la più debole, di fronte a canzoni-quadro che narravano, ognuna per conto suo, storie separate. La poca narratività del nuovo disco invece viene totalmente revisionata grazie alla scelta di personaggi-protagonisti, che danno uno spessore narrativo soltanto accennato nei testi verbali delle nuove canzoni: i due alter ego, il “pagliaccio” e la donna nelle sue figurazioni sono i protagonisti veri e propri di questa storia. Tanti uno e due: l’uomo e la sua donna (o forse l’amore), l’uomo e il tempo, l’uomo e la musica, l’uomo e l’arte.

Al Centro è un modello anche per le riprese. Duccio Forzano aveva infatti cercato di rendere, con profondità di campo, panoramiche e long take, la spazialità delle performance e delle coreografie di Paperini, riuscendoci soltanto in parte, vuoi per una regia molto ripetitiva, vuoi per le necessità impellenti del contesto live. Lavorare in post-produzione permette un lavoro di montaggio imparagonabile, e i risultati si vedono. Si intenda: nessun particolare guizzo audiovisivo, ma un uso sapiente e semantico della macchina da presa, che dà significato a molte sequenze (mi viene in mente la panoramica a 360 gradi intorno al pianoforte con Baglioni da una parte e il pagliaccio dalla parte opposta, in un altro pianoforte).

Ci sono poi le trovate.

La trovata del pagliaccio è senza dubbio la più geniale: lo chiamo pagliaccio, ma sarebbe più proprio definirlo maschera, nel senso quasi medievale del termine. Potrebbe essere il tempo, potrebbe essere un alter-ego trasfigurato del Claudio-adulto, potrebbe essere la personificazione dell’arte: sicuro è la parte più dionisiaca e irrazionale di Claudio Baglioni, che così si personifica. Baglioni stesso è altro da sé durante lo spettacolo: non canta con grande passione (sente senza dubbio la mancanza dell’adrenalina del pubblico), ma anche perché non ha bisogno di narrare attraverso la voce e la performance, perché ci pensano altri al suo posto. Paradossalmente, Baglioni poteva anche non esserci in questo spettacolo: bastava la sua arte, che è la vera protagonista. Anzi, l’arte di per sé, perché lui è uno dei tanti che hanno vissuto per lasciare il segno. Non a caso, il pagliaccio è attore e spettatore, ed è mascherato: soffre, si emoziona; piange, ride, sorride; si mostra e si nasconde. Vive gli alti e bassi del suo padrone, e lo aiuta a vincere il nemico più grande: il tempo.

La trovata della clessidra e del tempo da dominare, dominato non a caso dall’arte (dalla maschera), è l’altra trovata geniale. Peparini non è nuovo a sostanziare i concetti in oggetti che si possono toccare (ricordiamo i cartoni di Poster o il telecomando di E adesso la pubblicità): lo fa di nuovo, oltre che con gli oggetti del tempo (le clessidre e gli orologi), anche con altri oggetti (la presenza massiccia della statua, che nella sua possanza neoclassica sta ferma, immobile, mentre scorrono gli eventi – viene addirittura giustapposta ad un certo punto alla maschera, perché lì vi si nasconde l’essenza dell’arte che resta immortale, che resta in chi riesce a fermare il tempo), talvolta scenografici (la panchina dell’attesa, e il divano della sconfitta – da pugile abbattuto – di Io non sono lì).

La trovata della ripresa di aspetti già intrecciati nel corso della carriera: temi musicali e verbali, certamente, ma questi li si potevano osservare anche nell’album, ma soprattutto visivi, da quella chitarra imbracciata come quando, in Q.P.G.A., cantava La prima volta, durante Pioggia blu, che rappresenta “una volta” più matura, ai lacci che vengono da Fammi andar via (che avrebbe potuto appartenere di diritto anche a questo album, per atmosfera e costruzione), e molto altro ancora.

Queste nuove trovate si fondono con la vera storia di In questa storia che è la mia: una storia di continui alti e bassi. D’amore, sì, ma non solo: di vita. Se la guardiamo come una storia d’amore, quella di uno e due (che di base è), troviamo molti echi anche figurativi di Q.P.G.A., laddove tuttavia, questa volta, Baglioni scrive e parla da adulto, pur consapevole che l’arte ha cancellato il tempo, unendo tutte le sue varie età in un unico uomo. Non c’è alcuna pretesa di realismo in questa narrazione: è una storia fuori dal tempo e fuori dallo spazio. Da questo punto di vista, l’impostazione operistico-lirica aiuta molto di più: quel balcone finale non è nient’altro che una soglia simbolica, la soglia tra rappresentabile e irrappresentabile, la storia tra il poeta e la sua musa, tra l’artista e l’arte, tra l’uomo e il tempo, tra l’essere umano e la sua metà da amare. Una soglia che tiene separati e lontani, non fosse che per la musica, e per quei gesti liberatori di Claudio che – finalmente – alla fine sembra ritrovare la sua espressività (lui che non è un attore, e questo in mezzo ad attori veri – tra cui Favino – chiaramente si nota).

Cerchiamogli anche i difetti, per correttezza d’obiettività.

Le coreografie forse sono un po’ troppo modulate su Al Centro. Anche alcuni format. Non mi riferisco alle citazioni, ma al format di Reo confesso modulato su Via, e altri ancora. Poi, la questione dell’incisione vocale. Non credo che dovesse essere per forza dal vivo, e che la post-produzione dovesse essere tolta. Si tratta di un film: sono normali e corretti artifici del genere, che poi non sono neanche artifici, ma elementi fondanti della sintassi cinematografica. Forse, però, una sporcatura live avrebbe dato valore narrativo anche alla voce e alla performance di Baglioni, come in Al Centro. Ma, come dicevo sopra, Baglioni poteva anche non esserci.

Un esperimento decisamente riuscito, che non sarebbe mai stato pubblicato (forse) se non ci fossero state le chiusure del Covid. Come a dire: non tutti i Covid vengono per nuocere, anche se il prezzo che abbiamo pagato era da evitare. Diciamo che, più che il Covid, non tutte le innovazioni tecnologiche vengono per nuocere.

Ci mancano i concerti dal vivo? Certo. Continueranno a mancarci anche dopo ieri sera, anzi, forse ancora di più. Abbiamo assistito a qualcosa d’altro.

Torniamo allora al quesito iniziale: proviamo a definirlo. Un lungo videoclip? Riduttivo, visti i significati e gli intrecci di linguaggi impiegati. Un film musicale? No, perché non ha niente del musical. Il film di un concerto? No, perché manca il pubblico: non c’è stato alcun concerto. Un film-opera? Forse, se lo intendiamo nell’accezione moderna del termine, e non nel suo significato originale (ossia ripresa di un’opera lirica). Forse, un film-opera contemporaneo pop. Un po’ lunga e complessa come definizione. Ma non importa definirlo: lo faremo in momenti meno caldi.

Godiamocelo, aldilà delle difficoltà di fruizione della (molto discutibile da tantissimi punti di vista) piattaforma nazionale, e aldilà della nostalgia dei concerti. Godiamocelo, perché Claudio ha scritto un’altra pagina indelebile nella storia della forma-canzone: e questo, mi auguro, un giorno sarà proprio la storia a tributarglielo. E noi diremo: ci siamo stati. Di più: noi possiamo applicare tutto questo nella nostra vita.

Chi, d’altronde, non vorrebbe fermare il tempo?

Luca Bertoloni

Luca Bertoloni

Nato a Pavia nel 1987, professore di Lettere presso le scuole medie e superiori, maestro di scuola materna di musica e teatro e educatore presso gli oratori; svolge attività di ricerca scientifica in ambito linguistico, sociolinguistico, semiotico e mediologico; suona nel gruppo pop pavese Fuori Target, per cui scrive i brani e cura gli arrangiamenti, e coordina sempre a Pavia la compagnia teatrale amatoriale I Balabiut; è inoltre volontario presso l’oratorio Santa Maria di Caravaggio (Pv), dove svolge diverse attività che spaziano dal coro all’animazione.

6 Commenti

  1. Confermo che anche io non sono rimasto totalmente colpito dallo spettacolo. Non dal punto televisivo, ma da quello prettamente musicale. Visto così è sembrato solamente un lunghissimo videoclip dell’intero disco. Nulla di più. Se devo privarmi dell’emozione data dalla voce live di Claudio ed ascoltare praticamente un playback, il progetto comincia ad avere poco senso. Quello della “pulizia del suono”, era un mio timore, ma pensavo che si limitasse a quello che succede sostanzialmente anche nei live. Invece si è proprio mirato alla qualità pura del disco, perdendo così tutte quelle meravigliose sfumature che fanno della voce di Claudio una cosa unica. Peccato. Sa di occasione sprecata.

  2. Questo progetto credo sia nato per essere un “prodotto” audiovisivo e non la registrazione video di un concerto musicale. Ci sono comunque dei momenti di grande suggestione e complessivamente e’ davvero un gran bel lavoro artistico.

  3. Credo che la recensione abbia colto nel segno soprattutto nell’aspetto negativo relativo “relativo all’incisione vocale”. Questa “pulizia” del suono ha reso il tutto come un qualche cosa di artefatto e preconfezionato. Non ho trovato quell’emozione che avrebbe potuto dare l’esecuzione puramente live dei pezzi. E anche nell’impostazione teatrale non ho trovato nulla di molto diverso da quello che era stato quel meraviglioso concerto di “Al Centro”, nel quale le scenografie dei ballerini accompagnavano le canzoni di Claudio. Avrei preferito un qualche cosa simile a quello che hanno fatto i Negramaro. Con il loro biglietto del concerto era compreso un concerto streaming visibile solo in quel giorno ed in quell’ora. Proprio come se si dovesse andare ad un loro spettacolo. Mi sarebbe piaciuto più questo. Un’esibizione live di Claudio, magari anche corta. Una sorta di antipasto di Caracalla. Per quello che ho visto non ho provato nulla di quanto di più bello ci sia negli spettacoli di Claudio. Emozione.

  4. Condivido tutta la tua lettura, visione e analisi, Luca. Senza dubbio nel pagliaccio/maschera io ci vedo il tempo, ma insomma, quasi una lettura da quarta dimensione di Lynchiana memoria.

  5. “Baglioni stesso è altro da sé durante lo spettacolo: non canta con grande passione (sente senza dubbio la mancanza dell’adrenalina del pubblico), ma anche perché non ha bisogno di narrare attraverso la voce e la performance, perché ci pensano altri al suo posto”. Ho notato anche io questo “distacco”, e ho notato anche io i playback sui ritornelli (le strofe erano quasi tutte live) con conseguente perfezione totale dell’esecuzione; non gli si vede nemmeno una gocciolina di sudore sulla fronte! Ma d’altra parte questo è uno spettacolo molto complesso, registrato, dunque nulla è lasciato al caso, all’improvvisazione, ed è stato “girato” in più giorni, non cotto e mangiato come il live. Questo non è assolutamente un difetto, anzi.
    Quanto alla figura del “pagliaccio”, io l’ho interpretata come un’allegoria del Tempo, tant’è che è lui ad avere in mano la clessidra e a seguire passo passo le vicende dei protagonisti.
    Una cosa però mi è mancata molto nei personaggi: la “smemorata età” di lui, rispetto alla “bella gioventù” di lei. Questa mancanza l’ho avvertita soprattutto in “Pioggia Blu”: in quella canzone, oltre alla passione, si avverte anche il senso di protezione che il lui maturo della storia ha nei confronti “del cuore un po’ selvaggio” della giovane lei. Questa differenza di età che viene rivelata in “Mentre il fiume và”, secondo me è un elemento abbastanza importante di questa storia, cosa che si è persa completamente nella trasposizione “teatrale”; e nemmeno quell’atmosfera da nido a lume di falena della canzone, in cui i due si rifugiano durante la pioggia blu esterna, non l’ho ritrovato nella mise en scène.
    Ho molto apprezzato invece gli intermezzi in cui il Claudio ragazzino e il Claudio uomo agiscono insieme: il Claudio “dell’altro ieri” e il Claudio di “ieri”, che inoltre si sovrappongono al Claudio di “oggi”, al pianoforte… L’uomo di varie età.
    Finale in un crescendo di emozioni, con “Dodici note”, tra gli abiti di scena, sotto al “balcone” della bella (bellissima Tamara Fernando), e la consegna del frac per salire sul palco, stavolta tra i musicisti, per “Uomo di varie età”. La chitarra di Giovanni a concludere in dolcezza e malinconia allo stesso tempo.
    Un altro regalo meraviglioso di questo cantautore che vizia costantemente il suo pubblico.

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