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Ho messo di nuovo i guantoni

Claudio e Riccardo pugili

Qualche giorno fa ho messo di nuovo i guantoni.
Dieci dita serrate e armate di pelle.
Era tanto che non lo facevo.
Da un tempo in cui cominciai
a sfidare me stesso
e l’umile eroica fatica del sacrificio.
Chissà come e perché nella vita
ti trovi a percorrere strade e a far cose
che mai avresti neanche immaginato.
Così ripensavo a scene di molti anni prima.
A mio padre che tanto amava la boxe.
La nobile arte, diceva.
Io ero bambino e non capivo
cosa ci fosse di nobile nel pestarsi a sangue
nel ridursi in quel modo sul ring
o sul quadrato, come affermava preciso papà,
di palestre lerce e fumose
davanti a gente posseduta e triviale
che urlava cose così poco nobili.
Mi ci portava spesso mio padre.
Era il suo debole.
Faceva le mosse, gli affondi, le schivate
come se a combattere al fianco del pugile
ci fosse anche lui.
E io lo rimiravo curioso e stupito.
Lo spiavo pure negli intervalli
mentre lui si guardava attorno
e magari sbirciava sottecchi
la tipa curvosa di turno
con il cartello del round.
Anzi, della ripresa
come si pregiava di dire.
Mio padre in questo era piuttosto autarchico
e convinto nazionalista.
Infatti usava menzionare più pugilato che boxe.
Più combattimento che match.
“Fuori i secondi”
e d’un tratto mi rigiravo a guardare
verso la scena della contesa.
Ma cos’erano poi ‘sti secondi?
Sarà il tempo che manca per ricominciare…?
-È la voce dell’altoparlante
(e io scutavo su in alto)
che avverte gli assistenti degli sfidanti
chiamati “secondi”
di sgombrare il campo
perché si riprende la gara…-
spiegava soddisfatto papà.
E allora si ripartiva, via
e i pugili, giù, a darsele di santa ragione
tanto che, alla fine, vincente e sconfitto,
si abbracciavano come a scusarsi
di essersi picchiati così,
di aver fatto, l’uno all’altro, del male e anche tanto.
E poi quel misterioso vocabolario tecnico
che mio padre illustrava proprio bene:
diretto, gancio, montante, sventola,
colpi sotto la cintura, getto della spugna,
guardia destra e sinistra, knock out o abbreviato k.o.,
peso mosca piuma, gallo, welter, break…
Break! Pausa! Recupero.
Non ho più la forza e i riflessi di una volta
eppure ieri tiravo con rabbia e amarezza
e voglia di riscatto e giustizia
contro i soprusi di sempre e i pre-potenti di oggi.
E i post-arroganti di domani.
Di questo è fatta la boxe
quella che facevo anni fa
ma senza avversario
menando botte ad un sacco.
Che si beccava un sacco di botte.
Come nella vita,
prenderle e darle,
andare al tappeto e durante il conteggio
provare a rimettersi in piedi.
Da vincitori o da vinti.
Teste su, teste giù, attendendo il verdetto.
In mezzo, il destino vestito da arbitro.
E invece seduti di fronte,
agli angoli della mia stanzetta quadrata
ci mettemmo io e papà
nel buio appena illuminato da un abat-jour
di una notte d’aprile del 1967.
Il friulano Giovanni Benvenuti detto Nino
era volato a New York
a sfidare il campione mondiale dei medi,
l’afroamericano Emile Griffith.
La tv decise di non trasmettere il match
del Madison Square Garden
per non interrompere, si disse,
il sonno degli italiani.
Ci restava solo di sentirla per radio.
Mio padre si mise la sveglia
su un’ora da duello all’alba
e poi mi chiamò per svegliarmi.
Accese il piccolo apparecchio portatile
e lo tenne a volume un po’ basso
perché gli altri, mamma e i vicini, dormivano.
Passarono quindici round e un’ora,
forse un’ora e mezza
che durò tutta una notte,
e tutto il tempo a cercar di vedere
quello che un bravo radiocronista
cercava di descrivere al meglio
perché lo potessimo vedere
mentre ci guardavamo negli occhi noi due
con tutta la gamma delle espressioni
di chi segue potendo capire assai poco.
Dall’ansia alla trepidazione,
dalla speranza alla celebrazione.
Dopo quell’incredibile impresa
e tutto un oceano in mezzo,
Nino Benvenuti il biondino vinse e noi insieme a lui.
Dopo, probabilmente, abbracciò Griffith il nero,
come ci abbracciammo io e mio padre
per poi, tornare a provare a dormire.
Non mi ricordo se riuscii a prendere sonno.
E non so come sia andata a mio padre.
Da quella notte son passate tante notti
e tanta vita a provare a dormire.
O stare desto a pensare.
E mai che abbia capito cosa ci sia di nobile
in questa cavolo di boxe.
Però, perdìo, quanto mi piacerebbe
essere svegliato in quel modo
almeno ancora una volta.
Anche solo un’altra ripresa.
Un ultimo round.

firma baglioni

The Godfather

The Godfather [Il Padrino] - Dietro questo nickname si cela il nostro fondatore e amministratore unico TONY ASSANTE, più grigio ma MAI domo. Il logo (lo chiedono in molti) è il simbolo dei FANS di Elvis Presley (Cercate il significato in rete).

2 Commenti

  1. anche a mio padre piaceva tanto la boxe e anch io come te mi domandavo cosa ci fosse di tanto esaltante poi quando nell adolescenza mio padre mi mise le mani addosso dandomi uno schiaffone io l ho rinfacciato più volte che era un violkento perchè guardava la boxe in tv tra te e tuo padre era lo uno sport che vi rendeva complici e te lo seguivi per compiacerlo mio padre invece ha sempre voluto imporre le sue idee con la forza cercando di schiacciare la personalità dell altro in questo caso la mia ma il match l ho vinto io anche se le ferite non si cancellano un bacio grosso

  2. Claudio anchio condivido che la box è uno sport abbastanza pericoloso prendersi ap ugni non è propio bello però tutto sommato ai dei bei ricordi di tuo padre!!!!! sei un grande Clà T.V.B.!!!!

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