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Intervista a Claudio Baglioni – La Stampa 19/10/2025

Claudio Baglioni: “Cesare Pavese mi ha insegnato l’importanza delle parole”

I ricordi, gli incontri importanti, il rapporto con il figlio e quello con il pubblico: «Sono un nonno felice, il tempo che verrà non mi spaventa nemmeno un po’»

Claudio Baglioni guarda una sua foto appoggiata a un muro, è il ritratto per un manifesto. Ci sono i suoi occhi scuri, quelli ancora smaniosi, a chiedere di un posto che non c’è. È una foto onesta, sincera, si intuisce l’uomo dietro l’immagine: «Ma perché è così malinconica? – sussurra, con un sorriso complice – Forse osservandola da un’altra angolazione…».

Sbuca così, dietro l’ultima curva, la magia, il trucco che il mago tiene per la fine dello spettacolo, quello che lascia a bocca spalancata i bambini che tornano a casa con i sogni ancora aperti. Dopo un lungo pomeriggio insieme, c’è ancora un consiglio, nascosto dietro al nostro arrivederci: serve un’altra angolazione per guardare meglio dentro.

«Io ho considerato fin dall’inizio il mio mestiere come un nascondiglio e mi sono ritrovato a vivere esattamente al contrario, sempre in vetrina. Il destino mi ha tirato un colpo clamoroso: tutta la mia pasta era fatta per esser cucinata in altri modi, non in questo. Sono andato a fare uno dei mestieri più chiassosi, non solo per colpa degli strumenti e degli amplificatori, ma anche perché diventi, molto oltre le tue attese di timido, un personaggio pubblico».

C’è un posto in cui riesce a ripararsi e nascondersi?

«È un paradosso, ma quel posto è sul palco: lì sopra divento qualcun altro. I concerti sono così pieni di tante persone che ognuno diventa qualcosa di diverso e partecipa a un rito. Indosso una maschera spavalda che serve per l’esibizione. Nel momento della composizione invece la maschera non è necessaria, si cerca una verità. A volte scrivere significa cercare di rispondere in maniera indiretta alle domande più importanti della vita».

Il suo pubblico viene ad ascoltarla per avere per qualche ora più vicina la vera persona che scrive le sue canzoni?

«Sono un po’ cambiati i personaggi della commedia, sono cambiato io ed è cambiato il pubblico. C’è sicuramente ogni volta il tentativo di rinnovare un fuoco forte. Ma c’è anche una sorta di protagonismo di chi non è sul palco: a volte il pubblico viene a un concerto per vedere se stesso, per mettere alla prova le sue emozioni».

Dopo tanti anni di concerti anche le sue emozioni sono alla prova sul palco?

«In qualche modo sì. Ho sempre cercato di evitare il rischio di ritrovarmi a celebrare una messa cantata, con i suoi momenti rituali, quelli scontati che si ripetono ogni volta uguali. Continuo a sfidare una timidezza che non scompare nemmeno con gli anni, ma che cerco di governare giocando con il pubblico che diventa sia riferimento che bersaglio. Da una parte c’è la consapevolezza che lo spettacolo dal vivo è un rito, che accarezza e tranquillizza sia me stesso che il pubblico, ma d’altro canto c’è il desiderio di sorprendere: ho sempre cercato e cerco ancora in questo finale di carriera di insinuarmi in percorsi che non siano quelli attesi, prevedibili».

Lo stupore fa parte della magia dell’arte?

«Io sono ancora il bambino che vuole restare a bocca aperta davanti al mago. Non voglio in nessun modo conoscere i trucchi, scoprire come fa: voglio restare a bocca aperta di fronte al mistero. Anche per questo ho preferito non incontrare mai i miei eroi per evitare che potessero deludermi».

Non le è mai capitato di incontrarli?

«Ho cercato di evitarlo. Ma ho conosciuto Franco Zeffirelli dopo esser stato travolto dalla bellezza del suo Romeo e Giulietta ed ebbi poi la fortuna di interpretare le canzoni di Fratello Sole, sorella Luna. A Los Angeles conobbi Lucio Battisti, che era lì per registrare il suo album in inglese, un disco che non ebbe la fortuna che avrebbe meritato. Mi avevano detto che poteva essere un tipo non semplice, invece ci piacemmo subito».

Che effetto le fanno le attese deluse?

«Mi succede a volte con i luoghi che ho amato da bambino e che continuo a sognare come posti della magia. Ho avuto due o tre delusioni terribili, facendo l’errore di tornare a vedere come erano dopo tanti anni. Mi è capitato con un paesino in cui abitai per due anni, dove mio padre carabiniere era stato assegnato. Per me quello era un mondo fantastico, che continuava a vivere nei pensieri. Nella realtà non era più così. Questa è l’essenza della fantasia, del sogno, dell’immaginazione. Con il “lì” dell’immaginario ce la giochiamo: è il “qui e ora” che è un casino».

Il qui e ora dice che stasera al Teatro Civico di La Spezia in occasione del Premio Lunezia le verrà assegnato il riconoscimento per il valore musicale e letterario dell’album La vita è adesso. Lei è un timido, sarà perfettamente a suo agio con un premio musicale e letterario…

«Be’, insomma…I premi hanno bisogno di premiati per sopravvivere, specie se durano da tanti anni».

Ecco, appunto…

«Ma no, mi fa molto piacere riceverlo. Lunezia poi era partito quasi con me trent’anni fa, è un bellissimo premio che si dedica al valore dei testi. E credo sia molto importante riflettere e discutere del valore dei testi legati alla musica».

C’è sempre un certo pudore nel riconoscere il valore delle parole che si scrivono. Eppure, per tante persone quello che scrivete è poesia.

«È che poeta è un termine impegnativo, la poesia è qualcosa di molto preciso, che deve essere letta con la nostra voce interiore o detta, che non ha bisogno di altro che non siano le parole. Noi che scriviamo di certo usiamo la poesia, insieme con altri strumenti. In comune abbiamo la ricerca della forza della parola, la capacità di evocare immagini e mondi. Viviamo in questo limbo in cui per pudore un po’ infastidisce il confronto con i poeti e un po’, ahimé, lusinga».

Come è nata in lei la necessità di scrivere parole?

«A dire il vero non ho mai avuto molta dimestichezza con le parole, non sono stato un grande lettore da ragazzo. La prima cosa che ho scritto è stata il testo di una canzone, scrivevo bigliettini e annotazioni varie. Avevo iniziato a scrivere musica e volevo iniziare a mettere insieme delle parole per accompagnarla. E quasi per caso, verso i vent’anni ho iniziato a leggere tantissimo. E il mio mondo è cambiato. Mentre gli altri uscivano o si divertivano in gruppo, io mi mettevo in un angolo a leggere. Cesare Pavese mi ha travolto come una scoperta meravigliosa, soprattutto con Lavorare stanca. Leggendo ho imparato il peso delle parole, il loro valore, il loro suono. La parola è una cosa seria. C’è molta tolleranza nei confronti dell’utilizzo distratto delle parole, ma è un errore. Lavorare con le parole significa essere scienziati: l’esattezza della parola implica l’esattezza di tutte le altre forme di comunicazione. Dietro ogni parola c’è la storia che l’ha prodotta, c’è la geografia, c’è l’economia e ovviamente c’è la poesia. Le parole hanno sfidato i tempi e le rivoluzioni per arrivare così come sono a noi che le usiamo».

Sente questo peso quando scrive?

«Non il peso, sento questa responsabilità. A me di getto non è mai venuto nulla. Per scrivere ogni cosa che ho scritto avrei preferito metterci venti anni, non qualche mese, anche per canzoni che durano pochi minuti. Ogni tanto sento qualche collega o qualche scrittore dire di aver scritto in pochi minuti, in preda a un flusso torrenziale. Io invece passo i mesi dietro a una parola, a un articolo, a una preposizione».

Lei ha parlato di un mondo magico e fantastico, dentro al quale è andato a rincorrere la sua fantasia per creare le sue storie. È in quel mondo che torna per scrivere?

«Sì, è un mondo che è nato nei miei lunghissimi pomeriggi di figlio unico. Pomeriggi di silenzio assoluto, rotto soltanto dal suono della macchina per cucire di mia madre. Nella solitudine e nel silenzio ho scoperto un mondo di storie che volevo raccontare agli altri».

Come si concilia la necessità di pensare e scrivere con lentezza con la tendenza contemporanea di bruciare tutto nello spazio di un attimo?

«Credo che ancora ci siano molte persone che vivono il sogno come un rifugio: perché nel sogno non esiste il tempo. È vero che nella vita di tutti i giorni il tempo è sempre meno, si corre continuamente verso un futuro immediato, forse troppo prossimo. Non si fa in tempo a trattenere niente. C’è un passato recente che continua a sfuggirci con la rapidità della disperazione. Ma credo ci sia ancora un sentimento in qualche modo collettivo di sognare intorno alla vita che abbiamo vissuto e a quella che vorremmo».

Crede che la forza di questi desideri sia capace di cambiare le cose?

«Il sogno è una forma molto presuntuosa di padroneggiare la realtà. Ho sempre pensato che tante cose che sono accadute e che spero accadano nel mondo siano accadute o accadranno grazie al sogno di tante persone e di alcune in particolare che sono state in grado di guidare il cambiamento. Le persone riescono a stare insieme grazie alla forza dei loro desideri più profondi: è da questo meccanismo che nascono le forze politiche e sociali più profonde. Spesso se ci si ferma al soddisfacimento dei bisogni più concreti vincono quelli che cercano il proprio tornaconto personale, mentre il desiderio di miglioramento, il sogno di futuro è più spesso collettivo e altruista. Anche per questo mi metto senza pudori nella categoria dei sognatori, se non altro perché non valgo nulla in tutte le altre categorie».

A dire queste cose corre il rischio di sembrare un candido, un idealista, ne è consapevole?

«A dire il vero, sì, ne sono consapevole. A parlare di pace, di giustizia, di futuro c’è il rischio di passare per fessi, o almeno da personaggi inutili o privilegiati. Ma allora cosa si fa, non ne parliamo più? Io credo che sia necessario, di certo lo è per me, continuare a parlare della vita, dei suoi sviluppi, dei suoi problemi. L’artista è un raccoglitore di dubbi, è un’antenna che fiuta l’aria e combatte sempre con se stessa. L’artista può riequilibrare molte cose, creare un’occasione di meraviglia. Il compito di chi scrive è di non essere mai sicuro di niente, tranne che della necessità di cercare ogni giorno di più il senso della vita».

Come si può parlare di pace senza apparire ingenui? Come si può provare a costruirla?

«Oggi parlare di pace sembra quasi una bestemmia. Costruirla sembra impossibile e forse lo è davvero. Nel nostro piccolo abbiamo vissuto per tanti anni in un mondo che sembrava pacifico, ma nella realtà tutt’attorno proliferavano le guerre. E poi c’erano comunque le guerre economiche, commerciali, che non credo facciano meno vittime di quelle con le armi. Un certo tipo di modello economico, un supercapitalismo in cui l’unica regola è il mercato è un mondo in cui non esistono fogli di calcolo adeguati a conteggiare correttamente le vittime. Ma poi come possiamo tacere? Anche mentre stiamo parlando, nonostante sia stata annunciata la pace, ci sono altre persone uccise. La cosa più spaventosa è che è quasi impossibile cercare di innalzare la bandiera della pace senza essere derisi».

Lei ha scritto: “Ho corso in mezzo a prati bianchi di luna per strappare ancora un giorno alla mia ingenuità”. Crede che l’ingenuità sia un valore?

«Non possiamo pretendere che l’innocenza duri per tutta una vita, ma forse l’ingenuità sì. L’ingenuità può concederci un piccolo gioco, una piccola gioia, un piccolo o grande momento di libertà. Forse l’ingenuità ha la capacità di creare cose buone perché non si lascia imprigionare dai limiti della ragione a tutti i costi. Anche per questo credo che i grandi ideali vadano ricordati e si debba continuare a inseguirli, a costo di esser accusati di eccessivo candore. Se si cita oggi “I have a dream”, molti sghignazzano. Nessuno prospetta sogni, al massimo si promettono soluzioni pratiche, ma le soluzioni pratiche vanno affidate ai tecnici. I popoli hanno bisogno di guide morali. Oggi soffriamo per l’assenza di grandi madri e grandi padri della collettività, patiamo la mediocrità di tante figure pubbliche. Poi magari si mettono insieme e dicono di sé che “I grandi della Terra si sono riuniti”. Ma grandi di che? Grandi sono i popoli, sono le idee che renderanno più giusti Paesi e persone. Invece spesso il dialogo pubblico è fatto di slogan e promozione di se stessi. Mancano i grandi costruttori di sogni. Sono merce rara».

Ripartire in tour è una scommessa sul futuro?

«Fa parte delle cose che ho ancora il desiderio di fare perché credo siano importanti. La prossima estate ripartirò per un viaggio che mi porterà a fare cinquantacinque concerti in tutta Italia. Lo abbiamo chiamato “Il GrandTour” perché vorrebbe essere come quei grandi viaggi raccontati dagli scrittori del passato, alla scoperta di se stessi e di quello che ci sta attorno. Partiremo da piazza San Marco a Venezia il 29 giugno e chiuderemo alla Reggia di Caserta a settembre. Sarà il mio ultimo tour e vorrei approfittarne come persona, come uomo, un viaggio in Italia che non sia solo musicale, ma anche formativo».

Che uomo si sente di essere ora?

«Un uomo felice. Dal cinque giugno scorso sono diventato nonno di Leone Riccardo Baglioni e grazie a lui sto vivendo un momento che mi commuove profondamente».

Come quando nacque suo figlio Giovanni e per lui scrisse Avrai?

«In maniera diversa, ma completamente felice e travolgente».

Suo figlio le ha mai parlato di cosa ha significato per lui quella canzone?

«Giovanni un giorno mi disse una cosa che ancora mi mette i brividi: “Papà, molte volte ho cercato di capirti attraverso le parole delle tue canzoni, non solo Avrai”. Da una parte mi sono allarmato, ho sentito come una paura, una vertigine. Dall’altra ho pensato che fosse una cosa molto giusta e bella, perché ho cercato di dire molte delle verità in cui credevo nelle canzoni: forse davvero è riuscito a capirmi meglio così, che non con tutti i miei tentativi di essere padre».

La spaventa il tempo che verrà?

«Nemmeno un po’. Mi spaventa invece tutto il tempo che è passato, il ricordo di tutte le scelte, di tutte le cose belle che sono ormai lontane, dei tantissimi errori che ho fatto ai quali non posso rimediare. Il futuro è il tempo in cui spero di poter fare davvero quello che ancora sogno».

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