Resoconti

Presentazione 4°cd su Sorrisi

SABATO POMERIGGIO

Oltre al dono straordinario di creare melodie in grado di fare centro al primo ascolto e non abbandonare più menti e cuori nei quali si depositano (anche se estensioni e cambi di tonalità sono tali che, malgrado l’apparente semplicità, le canzoni risultano tutt’altro che “facili”), Claudio Baglioni dimostra di avere mano felice anche sul versante testi. In una stagione nella quale le tematiche di punta sono quasi esclusivamente “politiche” e “sociali”, l’attenzione del musicista romano ai temi dell’interiorità, del rapporto con una quotidianità avara di risposte e non sempre comprensibile, riesce a colpire nel segno e a colmare il vuoto lasciato da un’attenzione forse eccessivamente sbilanciata sui temi del “pubblico”. Il tutto, grazie ad una lingua semplice, ma mai banale, capace di rendere “universali” istanze individuali e “particolari” e al ricorso ad una straordinaria galleria di personaggi “ordinari”, che Baglioni non si limita ad osservare da fuori, ma nei quali riesce a calarsi, in una sorte di “possessione artistica”, per raccontare, da dentro, gli altri e se stesso.Con “Sabato pomeriggio” (uscito per la RCA nell’immediata vigilia dell’estate 1975) prosegue la serie fortunata degli “incipit” vincenti. Dopo “quella sua maglietta fina” e “Accoccolati ad ascoltare il mare”, l’estate del ’75 è caratterizzata da un altro verso “simbolo”, quel “Passerotto non andare via” con il quale si apre la leading track di un altro album destinato ad un successo straordinario. Versi la cui capacità di penetrazione è tale che finiscono  col sostituire il titolo stesso del pezzo al quale appartengono. Ecco, allora, che se la vox populi ha quasi subito ribattezzato “Questo piccolo grande amore” in “Quella sua maglietta fina”, se “E tu…” (malgrado la felicissima sintesi del titolo) è stata trasformata in “Accoccolati ad ascoltare il mare”, “Sabato pomeriggio” diventerà “Passerotto non andare via”.Versi simbolo a parte, Baglioni si conferma talento straordinario nel fondere note e parole. A proposito di queste ultime, particolare cura viene riservata agli aspetti relativi al “suono”, agli accenti e al gioco di assonanze, dissonanze e rime, nella consapevolezza del fatto che, in una canzone, i testi nascono essenzialmente per essere cantati (e non letti) e, quindi, la parola, oltre, ovviamente a significare, deve anche possedere una propria identità e valenza sonora. Se al musicista romano – che pure è autore, esecutore e interprete delle cose che scrive – non è possibile applicare l’etichetta “cantautore” (almeno non nell’accezione che essa manterrà per tutti gli anni ’70), a lui calza perfettamente, invece, la definizione di artista “Pop”.Pop, nel senso di “popolare”, che può essere certamente riferito alle tematiche trattate e alle proporzioni del successo che i brani incontrano, ma che, nel linguaggio musicale, fa soprattutto riferimento alla ricerca e alla scelta di certe sonorità e ad un particolare “taglio” nella “produzione” degli album. Ecco, allora, che se c’è una distanza reale tra Baglioni e gli altri “songwriter” della sua generazione, questa non è tanto quella (spesso sottolineata, anche se non sempre giustificata) della differenza tra categorie, non così facili da definire, come “impegno” e “disimpegno”, quanto quella che riguarda struttura dei pezzi (in particolare la ricchezza di armonie e modulazioni) e scelta delle sonorità. E’, dunque,, il “sound” ciò che più distanzia le produzioni di Baglioni da quelle degli altri protagonisti della scena degli anni ’70 e lo rende uno dei fenomeni più rilevanti del panorama “pop” italiano. Grazie a questa efficace miscela di note e parole e alla particolare attenzione a sonorità e produzioni, in soli tre anni, Baglioni  passa da giovane promessa della musica “leggera” itaiana vera e propria stella di prima grandezza del firmamento pop. Dopo l’inebriante esperienza parigina di “E tu…”, al fianco di un compagno di strada come Vangelis, l’album “Sabato pomeriggio” segna il ritorno in patria del musicista romano, sia per quanto riguarda la scrittura di testi e musiche, che per quanto riguarda le registrazioni. L’album, infatti, è interamente registrato presso gli studi “B”, “C”, “D” della RCA, mentre parole e melodie nascono tutte nella nuova abitazione romana di Baglioni al “Nuovo Salario”. Una situazione questa che, in qualche modo, si riflette anche su atmosfere e personaggi dell’album. Le storie, infatti, non appaiono più storie di anime di “periferia” alla ricerca di un “centro” simbolo di redenzione e riscatto, ma le tensioni più “intime” e “borghesi” di chi sente di aver, ormai,conquistato il proprio “centro” e guarda, dentro e intorno a sé, per rispondere alle domande di senso che la navigazione pone. La cifra narrativa non perde, però, l’attenzione “gozzaniana” a tutte quelle “piccole cose” che ritmano l’anonima e, tavolta, ispida quotidianità metropolitana, nella quale il confronto tra la lotta per la tutela e l’affermazione dell’identità e la tentazione o il rischio dell’omologazione resta uno dei temi centrali. Anima metropolitana perfettamente rappresentata dalla celeberrima copertina grafica che – per espresso desiderio di Baglioni – simboleggia il grande sogno, che, come un gigantesco sole, domina skyline, strade, via vai, stanze e finestre di tutte le città del mondo.Con il rientro in Italia, si ricompongono i tre quarti dei “fantastici quattro” artefici del successo di “Questo piccolo grande amore” e “Gira che ti rigira amore bello”. Baglioni ritrova Antonio Coggio (che, per la verità, lo aveva seguito anche in Francia per la lavorazione di “E tu…”), mentre Franco Finetti riprende il proprio posto alla consolle per registrazioni e missaggi.Non facile si presenta, invece, la scelta di un arrangiatore che avesse personalità, talento e idee in grado da sostenere il confronto con Vangelis e dar vita ad un album che potesse competere con la portata innovativa e le sonorità “internazionali” di un disco come “E tu…”. La scelta ricade sul musicista argentino Luis Bacalov, che accetta con entusiasmo e grande carica creativa, sebbene ormai sul punto di dismettere i panni di arrangiatore e orchestratore, per dedicarsi definitivamente alla composizione (Bacalov otterrà l’Oscar 1996 per la colonna sonora del film “Il postino”) ed alla carriera concertistica. Una scelta che si rivela vincente. Musicista di straordinaria intensità e grande sapienza creativa, Bacalov non si chiude negli spazi angusti di una cifra stilistica univoca, ma, attraverso arrangiamenti particolarmente ricercati (e, tuttavia, ugualmente in grado di incontrare il favore del grande pubblico), riesce a mettere a fuoco al meglio l’anima di ogni brano, attraverso una molteplicità di voci e suoni, ottenuti riscoprendo e valorizzando al meglio le potenzialità timbriche di un vasto set di strumenti acustici tradizionali. Se, ad un primo ascolto, “Sabato pomeriggio” può apparire, quindi, un album meno trascinante, più calmo e “posato”, rispetto alla portata innovativa di “E tu…”, alla distanza la sapienza costruttiva e la personalità degli arrangiamenti vengono fuori, trasformando “Sabato pomeriggio” in uno dei grandi “classici” del repertorio baglioniano.Sebbene non sia attraversato dal fil rouge di una vera e propria storia unitaria (come era avvenuto nei “concept album” del ’72 e ’73) in “Sabato pomeriggio” riemerge il bisogno di recuperare quell’elemento “guida” unificatore che si era perso nel progetto “E tu…”. Protagonista, questa volta, non è una persona, ma un tema: l’attesa. L’artista visita la “sala d’attesa” del mondo e, con una felice serie di “tagli descrittivi” e “brani osservatorio”, racconta le piccole storie delle mille vigilie e la comune solitudine di quanti – sospesi tra un ideale d’amore e la ricerca dell’amore ideale – sostano, in attesa del prossimo passo, della prossima meta, del prossimo incontro.”Sabato pomeriggio”, vigilia del dì di festa, riecheggia, anche se in chiave metropolitana, quei fermenti de il “Sabato del villaggio” in cui speranza e attes si fondono fino a confondersi, in una lingua emotiva nella quale – come in spagnolo – per aspettare e  sperare esiste un unico verbo. Non a caso, a questo sono dedicati entrambi i tradizionali brani prologo ed epilogo che aprono e chiudono l’album.Neanche per questo disco cessa la “dialettica” tra discografici e artista riguardo alla scelta del brano “di punta”. In “ballottaggio” la title track, che i vertici RCA considerano (non del tutto a torto) un successo annunciato, e “Poster”, sostenuta, invece, da Baglioni, non convinto fino in fondo da “Sabato pomeriggio” che egli sente un brano dalla forma più “classica” e dalla struttura meno innovativa rispetto a “Poster” (tutta da ascoltare, ad esempio, la particolare filigrana timbrica della “nuvola sonora” ottenuta fondendo mandolini e archi, all’interno del ritornello). Tutto questo, malgrado la title track si animi di alcune interessanti invenzioni dell’ultimo istante, come l’attacco del brano affidato alla sola voce (realizzato in fase di missaggio finale) e il curioso salto di tonalità, inserito in extremis, tra strofa e chorus.Alla fine la spunta la RCA e la scelta ricade su “Sabato pomeriggio”, ma se il pezzo che dà il titolo all’album stabilisce il record di permanenza (16 settimane) al primo posto della hit parade, Poster verrà unanimamente considerato dalla critica uno dei brani più belli della produzione del Baglioni anni ’70 e risulta tutt’oggi uno di quelli che vantano il maggior numero di versioni realizzata da altri artisti. Ma “Sabato pomeriggio” e “Poster” non sono gli unici gioielli di un album che contiene brani – come “Lampada Osram” o la cortissima ma fulminante “Doremifasol” – che hanno superato la prova più difficile, quella del tempo, e si presentano a noi, a distanza di più di trent’anni, con tutta la freschezza, l’energia e la capacità evocativa che caratterizzano la migliore produzione del musicista romano.

Trascrizione a cura di Sabrina Panfili, in esclusiva per www.saltasullavita.com e www.doremifasol.org

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