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Il mio Piccolo Natale in più

di Claudio Baglioni

L’aspettavo tutto l’anno, come solo i bambini sanno aspettare i sogni.

Più dell’arrivo dell’estate, più del primo giorno di mare, più dello scendere a giocare in cortile, più delle andate mensili in campagna, delle galoppate immaginarie a cavallo di una canna di fiume, delle sortite vietate e clandestine nel buio della stalla.

Non vedevo l’ora che le giornate si accorciassero, che la città indossasse il vestito della festa e la gente tirasse fuori il sorriso più luminoso, quello che teneva chiuso tutto l’anno in un cassetto, per non sciuparlo. Appena iniziavano le vacanze di Natale e rimanevo tutto il tempo a casa, mi avvicinavo, l’accendevo e la magia, finalmente, cominciava.

No, non parlo dell’albero. Né dell’albero, né del presepe, che pure erano bellissimi.

Parlo della radio. Sì, una radio, una grande radio a valvole. Dentro un monumentale mobile di legno. Ci restavo incollato ore. Mi godevo iI tepore, il fluido caldo che irradiava, come il camino dei parenti dell’Umbria e quel fuoco che non potevo portare con me in città.

Era il mio cane, la stufa, lo scatolone dei giochi e, per molti anni, l’unica cosa preziosa della casa, oggetto del desiderio e dei commenti dei visitatori. Mi ci addormentavo addosso. Mi staccavano e mi mettevano a letto così com’ero. Per me era lei il suono del Natale. O forse Natale stesso. I miei l’avevano vista in una vetrina ed erano rimasti folgorati, come i pastori davanti alla grotta. “E’ bellissima!”, aveva sentenziato mio padre, che era uomo e sapeva le cose.

“Ma come possiamo permettercela?”, aveva risposto mia madre, che era donna e sapeva la vita. Dopo un anno di risparmi, la radio fece il suo ingresso trionfale in casa.

Quella di via dei Noci, al numero 46.

Una cucina quadrata, dove stavamo sempre; un saloncino, con i divani foderati di plastica dove non stavamo mai, tranne quando veniva qualcuno importante; una camera da letto e un lettino aggiunto, che si tirava su e giù; un corridoio e, in fondo, il bagno e un terrazzino con una casetta di legno e lamiera: ripostiglio dei ricordi per papà e rifugio dei segreti per me.

Cinquanta metri che misuravano d’infinito.

“Adesso sì!” disse mio padre, sistemando la radio sul trono, un baule ricoperto da una stoffa a fiori, al centro del corridoio. “Adesso sì”, sussurrò mia madre, aggiustando il centrino bianco. “Adesso sì”, pensai io. L’infinito era arrivato davvero. Da casa nostra non sarebbe più uscita.

Fu il nostro focolare e ci seguì in tutte le case in cui andammo a stare.

La guardavo dal basso in alto: due grandissimi occhi a rettangolo, un piccolo oblò convesso di vetro al posto del naso e una piastra larga grigiocaffè per bocca. Era imponente, un gigante.

Una creatura di un’altra era.

“Qui dentro c’è il mondo!” disse mio padre, picchiettando convinto con l’indice sulla radica color cioccolato. Nemmeno per un istante dubitai del fatto che fosse davvero così.

Nel tempo ho capito.

Visto che non avrebbe mai potuto portarci a conoscere tutto il mondo, era riuscito a portare il mondo da noi.

Restavo davanti a lei a occhi chiusi e cuore aperto. Più che ascoltarla, la sentivo. La respiravo. Manovravo come dalla plancia di una nave spaziale, guidando quella fantamacchina sulle rotte del mistero. Giravo le manopole, due grandi, due piccole e tre selettori, con venerazione, come un ladro che indovina a orecchio la combinazione di una porta blindata.

In due metri quadrati c’era tutto il mio Natale: la radio era la grotta, l’albero era il bue, il presepe l’asinello e l’occhio magico la cometa che indicava il punto e il momento esatti nei quali il miracolo si sarebbe compiuto. La vera sintonia cosmica raggiunta e rivelata.

E io di fronte ero tutto il resto.

La scatola emetteva ruggiti, fischi, sibili, rantoli, mozziconi di parole in lingue strane, arcane, sconosciute, grappoli di note e polvere di notti. All’improvviso, l’oblò, detto occhio magico, si allungava e poi esplodeva in un verde intenso e il big bang generava il suo universo: la musica.

Quando si accendeva così, come uno smeraldo sfavillante, provavo la stessa emozione dell’entrare nella stanza proibita del granaio degli zii umbri, con i lunghi raggi di sole che la penetravano dalla finestrella. E, mentre aprivo di soppiatto la porta, il collo mi pulsava forte, come al bambino di “Marcellino pane e vino”. E finalmente potevo lanciarmi su quel tesoro biondo, profumato di pane, più felice di Paperone quando si tuffava nei suoi adorati dollari.

La mia cassaforte era la radio e tutte le storie che sapeva raccontare. Come un grande saggio.

Immobile. Quieta. Appoggiata di schiena sulla parete. Solo una volta, la trovai appena spostata.

Forse l’avevano discostata per spolverarla e si erano dimenticati di rimetterla a posto.

Fu allora che, da una fessura della tavola che chiudeva la parte posteriore, scoprii un intrigo di cavi, lampadine, cilindri, tracciati.

Sembrava una centrale elettrica in miniatura. Mi tenni a distanza, prudente. Chissà quali altre insidie e portenti v’erano contenuti. Qualche mese dopo, la smania vinse sullo stupore. Staccai la radio dal muro, aprii la scatola, con il cacciavite del traforo e guardai dentro. Rividi l’intrigo di cavi, le lampadine, i cilindri, i tracciati e poi tanta polvere e pallottole di pelucchi. Nient’altro. Come poteva essere? Richiusi in fretta occhi e pannello.

Di sicuro non avevo visto bene. E neanche dappertutto. E il mobile di sotto? Lì c’era roba.

E magari un doppiofondo speciale. E feci finta di scordarmi il fatto. D’altronde io non ero un tecnico. L’avevo già annunciato che da grande avrei fatto l’architetto. E non l’ingegnere.

Mio padre, al contrario, era un tipo ingegnoso. La strutturazione e l’impianto dell’albero e del presepe spettava a lui. Lui, l’uomo di casa e l’ex contadino. Le rifiniture, alle mani esperte e ispirate di una brava sarta: mia madre.

Era lei l’esteta del gruppo. A me restava la parte migliore: fantasticare. Mi piaceva la maestosità dell’abete. Il fatto che puntasse verso il cielo. Adoravo guardare il mondo riflesso nelle palle di vetro colorate. Era bello quasi come nelle mie visioni. Io diventavo grande e tutto il resto, intorno, piccolissimo. Ma erano fragili. Più fragili delle chimere. Quando se ne rompeva qualcuna, la deponevo nella scatola di cartone, con una cura che non riservavo nemmeno al bambinello. Quasi a ricoverarle in un ospedale capace di guarirle, di rimetterle in forma, pronte a riprendere il proprio posto. Per fortuna c’era mamma a rianimare loro e me, mettendole su in modo che mostrassero solo la faccia ancora presentabile. Col tempo l’albero diventò un appendiqualsiasicosa: un albero della cuccagna con pesciolini, campanelle e pupazzetti vari di cioccolata, che, invece, non erano poi così fragili.

Si rompevano, sì, ma solo, di nascosto e sotto i miei denti.

Il tocco finale – la posa del puntale – era privilegio e responsabilità esclusiva del capofamiglia. Saliva sulla scala e ornava la cima dell’abete con la solennità di un Papa che posa la corona sulla testa di un Re. Il culmine della tensione si registrò nel Natale dei miei sei anni. L’albero che era un abete vero, scelto e comprato da piccolo in un vivaio, era cresciuto. La casa invece no. Era diventato così alto che faceva il solletico al soffitto. Più alto dell’uomo e della scala che lo teneva in equilibrio sulle spalle. Mio padre si allungò, un po’ troppo, perse la verticalità e precipitò rovinosamente sul presepe come la scia luminosa di un’enorme stella cometa, o forse più un meteorite, trascinando con sé albero e scala. La radio, chissà come, si salvò. Seguii tutto il disastro, al rallentatore, pietrificato, con mia madre che mi teneva le mani sulle orecchie nella speranza vana che non sentissi le imprecazioni che squarciavano la sera come fuochi d’artificio e rievocavano assai poco le celestiali tiritere natalizie.

L’albero delle mie brame trasognate era il Gazometro. Una specie di cilindro magico.

Ancora più magico di quello del prestigiatore. Un traliccio immenso di ferro, una voliera gigantesca, molto più grande di quella dello zoo. Papà mi spiegava che ci tenevano il gas. Ma come faceva a rimanere là dentro, visto che era tutto aperto?

Doveva essere magico un bel po’.

“Quando abbiamo più soldi, ce lo compriamo e lo addobbiamo, papà? Sarà il nostro albero.

Il più alto della città. Lo vedrà tutta Roma!”

Lui sorrideva, annuendo, ma a me restava un’ombra di preoccupazione.

Alla fine di tutte le decorazioni, chi avrebbe messo il puntale lassù?

Non so perché ma a Natale mi scappavano più domande che nel resto dell’anno.

Tante, brillanti, colorate e intermittenti come le luminarie nelle strade. Perché san Giuseppe era così vecchio? Perché il bue e non una mucca, più mansueta, materna e in grado di dare il latte? Se, invece, fosse stata proprio una mucca, era forse la fidanzata dell’asino? E chi era la Befana? La moglie di Babbo Natale? Di quale, visto che, al supermercato, ne avevo visti due insieme e ci avevo fatto anche la foto in mezzo? Chiunque dei due, perché se l’era scelta così brutta?

“Papà, ma tu lo conosci Babbo Natale? È un tuo amico?”. “Amico mio?” rispose un po’ piccato. “Semmai sarà amico del nonno!”. “Allora – replicai – è Nonno Natale!”.

Nel 1955 il BabboNonno mi regalò una minuscola scatola di costruzioni. Dodici pezzi in totale. Ma quante varianti di case, palazzi, castelli da mettere su. Un esercizio utile per accrescere l’armonia, diceva zia Vera, con il suo culo grosso e i polpaccetti storti.

Era per quello che, ogni tanto, il presepe mi appariva con qualche errore di prospettiva e senso delle proporzioni? Un agnellino ch’era tre volte il lupo? E quella capra alta come un mammut che sovrastava un pastore nano?

Era bello, però, ritrovare, verso la metà di dicembre, tanti vecchi amici. Amavo soprattutto le statuette più rovinate. Quelle che portavano i segni delle troppe notti all’addiaccio, davanti alla capanna, oppure quelle timide e spaesate che si univano alla compagnia per la prima volta.

Le mettevo vicino alle più esperte, perché non si sentissero sole, non si perdessero e non si addormentassero prima di vedere ciò che erano venute a vedere. Il bambinello arrivava solo alla mezzanotte del 24: biondo, roseo e paffuto, sembrava un bambolotto e non assomigliava per niente a Giuseppe.

I Magi giungevano per ultimi. Venivano da terre troppo lontane per essere puntuali: i bianchi ghiacciai del tetto del frigo, le dune infuocate del termosifone, gli altipiani aridi e nodosi delle mensole a muro.

Ogni volta ci si inventava di farli partire da più distante.

Mi piaceva quella confusione di forme, lingue, oggetti, colori. Come al mercato della domenica mattina. Non importava chi eri o com’eri. Importava solo che tu fossi lì. E, soprattutto, il perché eri lì. Che eccitazione, con il muschio che profumava di campagna, la capanna costruita al tornio da mio padre, uno specchio per il laghetto, una striscia di stagnola a far da fiume, sentieri disegnati da sassolini, piantine grasse a fingersi alberi, un po’ di farina gialla per la sabbia del deserto e il borotalco a orlare di neve le colline di cartapesta. Mio padre voleva mettere sempre anche il ghiacciaio.

Per questo prendeva un sacchetto di ovatta. E io ci associavo subito l’odore dell’alcol e l’ansia delle iniezioni. Possibile che quando c’è un povero bambino, in più appena nato, per casa, c’è pure un adulto che gli corre dietro per la puntura?

Una volta aggiunsi due personaggi anch’io. Un indiano e un cowboy. Se le davano di santa ragione per tutto l’anno, ma il Natale sanciva la pace olimpica. Se volevano tornare sul sentiero di guerra dovevano aspettare almeno che passasse la Befana. Che quell’anno, nemmeno a farlo apposta mi portò un arco con le frecce e una pistola di plastica. Fu una buona annata.

A parte il solito pezzo di carbone, messo come monito nella calza appesa alla maniglia della finestra, ebbi in regalo anche un trenino, con tre carrozze. Ma non mi spiegavo perché tutte e tre si chiamassero “Nino”. In questo clima di incertezze e di sorprese, una cosa fu presto certa: la bicicletta, quella non l’avrei mai avuta. A cinque anni, armeggiando con un cannocchiale di mio padre, dopo aver smontato le lenti, avevo scoperto che, puntandole sul sedile del triciclo, riuscivo a concentrare la luce del sole in un sottilissimo raggio, che disegnava la superficie di legno con dei bellissimi puntini nero-fumanti. Dai e dai, alla fine, il triciclo s’incendiò. Mio padre si arrabbiò così tanto, che giurò che non mi avrebbe più comprato la bicicletta. E così fu.

Un anno dopo, ci ritrovammo al Palazzetto dello Sport, per la Befana del Carabiniere.

Al momento della consegna dei regali, il microfono strillò: “Ai primi dieci bambini che arriveranno qui, sul palco: una bici fiammante!” Erano magnifiche e lì a portata di sogno. Due, tre quattro cinque ragazzini si catapultarono verso il palco. Stavo per scattare anch’io. Altre due furie mi passarono avanti. Rimasi bloccato. Non potevo andare. Dopo quello che avevo fatto al triciclo, sapevo di non meritarla. Non potevo aggirare il comandamento del mio genitore. Sette, otto… “Vai!” disse mia madre, che era donna e sapeva la verità. Già, ma cosa avrebbe detto mio padre, che era uomo e sapeva la giustizia? Anche la nona bici venne assegnata. Come un sonnambulo ero arrivato a pochi passi dal sogno. Il cuore gonfio e le gambe dure, come se avessi pedalato per centinaia di chilometri. “Posso… o non po…”. Non riuscii nemmeno a completare il pensiero. Colui che avrebbe portato via l’ultima bicicletta, quella argento, la mia, mi sfilò accanto, con il ghigno che la realtà assume quando gode a farsi beffe della poesia. Mio padre, nei secoli fedele, per vocazione prima ancora che per professione, mantenne la sua promessa. Su una bicicletta ci sono salito sì, ma solo da grande, quando, ormai, era troppo tardi. Le cose di equilibrio e spericolatezza, se non le impari da bambino, dopo è dura. Come sciare o andare sui pattini o sullo slittino.

A Roma la neve fa la differenza. Quella vera venne giù solo nel 1956. Contavo quasi cinque anni. Era ormai febbraio, ma finalmente avevo un Natale come si deve. Come quello delle cartoline, in mezzo al bosco tranquillo, un casolare croccante come un biscotto e la luce bella da dentro le finestre a quadretti. Il tetto che gronda di bianco come un panino rinforzato al formaggio. E davanti i binari perfetti di una slitta. Ma perché noi non abitavamo in una casa così? Da allora ogni volta che la neve torna, ritorna anche il Natale. Anche se non è.

Come ogni anno, a inizio novembre scrivevo la letterina a Babbo Natale, confessando una bugia – che non ero stato buono – e promettendone un’altra – che sarei stato meno cattivo -. La lasciavo sotto il piatto, senza capire perché. Un anno, che la intestai a Gesù bambino e la misi sotto il cuscino, chiesi l’unica cosa che mi mancava davvero: un fratellino. Perché io non ce l’avevo? Mia mamma mi aveva spiegato che i bambini si compravano al mercato. E che al momento non avevamo le possibilità.

Allora, senza dire niente a nessuno, avevo messo da parte i soldi per tutto l’anno. Era andata bene per la radio, perché mai non avrebbe dovuto funzionare per un fratellino?

Alla vigilia delle Feste, mi ero presentato da lei con le mani a forziere, traboccanti di spiccioli.

Mi guardò con una dolcezza che la Madonna del presepe le avrebbe invidiato: “Mi dispiace – disse, ricoverando le mie mani nelle sue – non bastano. Purtroppo, quest’anno sono rincarati anche i bambini”.

Nessuno avrebbe potuto spiegarlo meglio di così. Non è che a Natale nascono tutti.

Ma, pure senza un fratello o una sorella, Natale fu tante cose: aprire il cartoccio di pescetti fritti, la sera della vigilia; restare nel letto tra mamma e papà, “almeno un pochetto”; soffiare sul cucchiaio di stracciatella bollente al pranzo del 25; andare a giocare a carte, a Santo Stefano, dalla zia Wanda, che sapeva il francese e il galateo; fare un setteemezzoleggittimoereale dopo una puntata forte di 20lire dorate; tenere una girandola fiammeggiante sul balcone di mezzanotte; dormire sul sedile di dietro al rientro dalla festa di Capodanno; distinguere la cicoria tra tutte le altre erbe del prato della Torraccia , il primo dell’anno; prendere il treno accelerato per Orvieto, che fermava a tutte le stazioni e mio padre le sapeva tutte a memoria; andare a provare, subito la mattina del 6, il pallone nuovo al campetto; nel pomeriggio passeggiare, tutti e tre noi e io nel mezzo, come su un’altalena, dal parco fino ai viale del lungofiume.

Natale era unico.

Il Natale del ‘58, fu ancora più unico. L’unico senza la radio. Eravamo a Posta, un paesino in provincia di Rieti. Arroccato su un pendio, sembrava un presepe. Le montagne della zona erano piene di presepi così. Papà era Maresciallo. Con il prete e il dottore, una delle tre autorità del paese. Abitavamo in caserma. Spaziosa, ma deserta, senza cane, stufa, scatolone dei giochi. Senza musica da abbracciare. La credenza dei suoni era rimasta a casa. Avevo chiesto di portare con me una fisarmonica che era stata poggiata per tanto tempo sopra la radio. Meglio di niente. A contatto così, forse aveva imparato un po’ della sua magica arte. Perciò andavo in giro, nei giorni prima delle feste, a suonare tra le case e bussavo alle porte.

Tre patate, un uovo, un sacchetto di lenticchie, un pugno di castagne e grazie signora.

Capii che la musica è bella e dà da mangiare.

Due giorni prima di Natale arrestarono un uomo. Tentato furto, mormoravano. “Che c’è di male?” m’interrogavo. “Non l’ha neanche fatto. L’ha solo tentato”. Venne fermato e tenuto nella cella della caserma. “Posso guardare un momento?”, chiesi esitante, indicando lo spioncino. Mio padre fece no con la testa e lo chiuse, senza fare rumore. Sarebbe bastato che mi sollevasse solo un istante e, invece… Il suo sguardo fu più chiaro e intenso del solito e indicò con gli occhi prima i miei cioccolatini e poi la porta della cella. Scegliemmo un ovetto rosso e lo mettemmo vicino alla scodella della cena. Non ho mai saputo se gli abbia fatto piacere e se gli hanno detto che glielo
mandava un bambino. Però so che quel bambino cominciò a saltare con il cuore di Marcellino pane e vino in gola. E poi si ritrovò a correre nel corridoio di via dei Noci, inspirò il profumo delle bucce dei mandarini sulla stufa elettrica, sentì le caldarroste scottare e annerirgli le dita, strizzò il suo occhio all’occhio magico e orecchiò una musica nota. Erano di nuovo tutti insieme. Era di nuovo Natale.

Il giorno dopo ero ancora lì che correvo. Stavo al torrente a giocare e, per sentirmi grande e fare lo spiritoso, avevo cominciato a tirare sassi nell’acqua. Uno mi era scappato di mano e aveva colpito una ragazzina alla tempia. Era stramazzata a terra.

Morta, pensai, mentre fuggivo. Se avevano messo in cella quell’uomo, solo perché aveva cercato di rubare, cosa avrebbero fatto con me? E come avrei fatto a dirlo a mio padre? Io, il figlio del maresciallo… Emozioni, passi e pensieri si annodarono e caddi, sbucciandomi le ginocchia fino a farle sanguinare. Mi ritrovarono nascosto nel magazzino della caserma. Intirizzito, avvolto in una coperta militare, con la quale cercavo di tamponare il freddo e il sangue. Cadendo, avevo rotto anche il piccolo crocifisso che il prete mi aveva regalato. A Gesù si era spezzata la croce. Quando mi trovarono, ero lì che gli parlavo. Mi dispiaceva, gli dicevo con l’anima in mano. Non lo
avevo fatto apposta. Lui poteva capirmi: anche a lui sanguinavano mani, piedi e ginocchia. La paura era quasi passata, il dolore no. Però mi faceva sentire meglio l’idea che non soffrisse più. In fondo, una cosa buona l’avevo fatta: lo avevo liberato dalla croce. Mi avrebbero perdonato? Quel Gesù senza più croce l’ho portato con me per una vita. Anche quando son diventato grande davvero. E per sempre. Ma ci fu un giorno che lo divenni per la prima volta. Attraversando il corridoio, ebbi un tuffo dentro. Non solo riuscivo a guardare la radio negli occhi, ma la mia testa superava, seppure di poco, la sua. Mi avvicinai, mi poggiai una mano sul capo – come facevo quando mi mettevo con la schiena allo stipite della porta per misurarmi e segnare con la matita il traguardo raggiunto – e la feci scorrere, lentamente, verso la radio. Ero più alto io! Non più di un paio di dita, ma ero più alto.

L’emozione fu abbagliante. Luccicò come la bicicletta che non avevo mai avuto. Era l’anno dei miei nove anni. Quando arrivai in cucina, cercando di calmare battiti e pensieri, mia madre disse: “Tra poco comincia il catechismo. Quest’anno fai la prima Comunione. Sei contento? Sei diventato grande ormai”. “Si è sparsa la voce”, pensai. “Possibile che non si possa nascondere nulla alla gente?”

Era il 1960. Per la prima volta, mi sentivo all’altezza della situazione. Qualche mese dopo, quando il prete posò l’ostia sulla mia lingua, fui attentissimo a non toccarla coi denti. Aspettavo, a occhi serrati, che si sciogliesse. Volevo che fosse lei a scivolare dentro di me e non io a mandarla giù. Dentro c’era il corpo di Gesù, mi avevano ripetuto al catechismo dell’oratorio. Mica potevo fare del male a quell’esserino biondo e rosato che tante volte avevo adagiato nella mangiatoia?

Quell’anno Roma ospitò le Olimpiadi. Non so come, mi capitò tra le mani un pastorello senza sandali e con la pelle un po’ più scura degli altri. Lo soprannominai AbebeBikila, come quel signore, tutto pelle e ossa, che aveva vinto la maratona, attraversando la città a piedi nudi.

Lo misi appoggiato su un lato del pozzo. Ne aveva fatta di strada.

In quei sei anni, di Natale in Natale, io e la radio facemmo, anche noi, tante miglia.

Me ne stavo ore a cercare di decifrare i fregi stilizzati degli schermi. Somigliavano a geroglifici, come quelli egiziani che avevo visto sul sussidiario. I quadranti, neri più del fondo della notte, erano due porte stellari e le due lineette -una rossa e una giallo pallido- che scorrevano in verticale sui nomi delle città, sembravano rette di costellazioni di un cielo inesplorato, le cui frequenze misteriose arrivavano fino a me.

Se abbassavo lo sguardo, potevo vedere quello che ascoltavo e, dopo un po’, persino quelle parlate straniere e incomprensibili diventavano familiari e riuscivano quasi a darsi un senso. “Un giorno”, mi dicevo, “imparerò che cosa dicono”. Così come l’interminabile listino della Borsa con un nome curioso e una cifra e il solenne bollettino dell’avviso ai naviganti con l’elenco dei venti e la forza del mare. “Mamma, papà, posso sentire la radio?” e mi piazzavo lì, al centro della rapsodia del mio atlante sonoro, rapito dal verbo del mio mappamondo parlante. Quella luce e quelle scritte, scansionavano gli occhi, perlustrandoli e riempiendoli di prodigi. C’era un universo parallelo là dentro. E davanti e intorno a un’altra radio uguale alla mia o a milioni di altre radio, collegate da un “filo” invisibile e senza fine.

Rimanevo interi pomeriggi aggrappato a un capo di quel filo, come a un’antennaaquilone che strappava gli ormeggi e mi trascinava con sé a sorvolare mondi di favola.

Bastava accendere e aspettare: prima o poi tutta quella gente si sarebbe accorta di me. Piano piano, i loro aquiloni li avrebbero portati qui. Passandosi parola, uno per volta, sarebbero atterrati sulla mia terrazza, mi avrebbero aiutato a trasportare la radio nel rifugio e, insieme, avremmo chiamato a raccolta gli altri.

E l’incredibile era che per quanti potessimo essere, entravamo tutti in un quel metro cubo.

I miei dicevano sempre che a Natale ci si ritrova, si sta più insieme, che si passa più tempo con i parenti e con gli amici, soprattutto quelli lontani. “Più lontani di questi – pensavo – chi c’è?!?”. Leggevo i nomi dei luoghi dove stavano, dov’erano andati. Ogni nome, un colore. Quelli in rosso dovevano essere i più importanti; i gialli i più allegri, i celesti i più felici, i blu i più seri e riservati, i bianchi i più buoni, i violetti i più tristi, i verdi quelli più vicino al mare. Chissà con che colore, sulle loro radio, era indicato il nome della mia città? A me sarebbe piaciuto azzurro come l’aria e l’acqua. Quante volte mio padre mi aveva istruito sul fatto che musica e parole viaggiavano sulle onde?
Onde corte, medie e lunghe che portavano suoni fantastici: sinfonie di orchestre, cantanti con voci possenti, inni trionfanti, pezzi classici, cori di bambini, dindondan di campane, timpani e ottoni, canti di chiesa, canne d’organo e zampogne lagnose.

Melodie che non sapevo, da ogni angolo del globo. Era come se si riversassero nel corridoio mulinelli pentagrammati di stelle, pulviscoli galattici di note, voli alati di angioletti, ghirlande e nastri della stessa stoffa del firmamento. Talvolta la forza della musica faceva gonfiare la retina beige dell’altoparlante e credevo che da un momento all’altro qualcosa potesse uscire da lì, a premermi il petto.

E a spremermi il cuore.

Qualche tempo fa, rivedendo la radio ho creduto di ritrovare le voci di quel che ascoltavo quando l’occhio magico si illuminava e mi illuminava. Come quelle cose che allora non avevi compreso e che oggi hai urgenza e bisogno di sapere. E che forse, finalmente, hai capito. Le ho messe una vicina all’altra, come le pecore mammut, i pastori mignon, il pellerossa e il cowboy, davanti alla grotta dei pensieri di chi passa e guarda. Ma non per nostalgia del passato. Quello l’ho avuto e l’ho vissuto. Ed è ancora con me. E con me resterà sempre, perché il passato ha questo di bello: non passa mai. Semmai è nostalgia del futuro. Di un altro futuro. Di quello che sarebbe stato. Di quel tempo che non è continuato così come avremmo voluto.

Non come lo abbiamo sognato, sperato, pregato.

Così sono andato a cercare quei posti di allora e l’abete, ormai un albero vero, imponente, che, quando non entrò più nella casa, venne piantato nella terra per la quale era fatto, e a Natale nessuno gli appese addosso più niente. Pelle e corteccia si sono indurite, ma, dentro dentro, forse siamo ancora gli stessi.

L’ultima volta che ho usato la radio, ero già molto più alto di lei.

Da tempo si era trasferita a vivere in camera mia. Ma pure se ormai era nelle mie   esclusive disponibilità e magari, proprio per questo, l’avevo trascurata per una radiolina a transistor. La obbligai a fungere da amplificatore, attaccando una dodicicorde elettrificata al suo prezioso altoparlante da otto watt.

Le valvole si scaldarono, come non avevano fatto da tempo, quindi si infiammarono in un acre odore di bruciato.

Il suo cuore non aveva retto.

Ci mancò un pelo che facesse la stessa fine del triciclo.

E da quel giorno smise di funzionare bene.

Aveva sacrificato la sua musica per far sentire più forte la mia.

Claudio Baglioni

Un piccolo natale in più (Special Edition) – Claudio Baglioni

The Godfather

The Godfather [Il Padrino] - Dietro questo nickname si cela il nostro fondatore e amministratore unico TONY ASSANTE, più grigio ma MAI domo. Il logo (lo chiedono in molti) è il simbolo dei FANS di Elvis Presley (Cercate il significato in rete).

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