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Claudio Baglioni e l’arte totale

Claudio Baglioni e l’utopia dell’opera d’arte totale

Quando si parla di opera d’arte totale nella storia della cultura occidentale non si ha a che fare soltanto con un concetto, ma con una sorta di vera e propria utopia progettuale che ha accompagnato diverse fasi della storia della nostra cultura, a partire dalla sua prima formulazione concreta, che risale al filosofo tedesco Trahndorff (attivo nella prima metà dell’Ottocento),fino ad arrivare alla eco maggiore avuta dalla declinazione di tale prospettiva realizzata (anzi, meglio, ipotizzata) prima dal compositore tedesco Richard Wagner, e poi da Jerzy Grotowsky, che vedeva nell’atto teatrale un’azione totale e un punto di arrivo del percorso di tutti coloro che volevano definirsi “attori” (il cui “agire” aveva appunto la pretesa di essere “totale”).

L’idea di totalità dell’arte ha riguardato nella storia più discipline artistiche, che hanno cercato all’interno del proprio statuto formale quelle caratteristiche linguistiche fondanti che permettevano l’incrocio de linguaggi; chi era a favore del primato della musica, chi invece del teatro, chi ancora dell’architettura o della letteratura: ogni ambito figurativo, plastico o artistico, sosteneva che il proprio linguaggio avesse al suo interno la possibilità di codifica formale di più linguaggi, e che potesse farsi da intermediario della totalità artistica nel suo insieme. A partire quindi da un singolo ambito disciplinare, i differenti linguaggi si possono intersecare realizzando l’opera, appunto, totale, nella quale coesistono più anime, sia estetiche che, appunto, linguistiche e formali.

Oggi esiste un nuovo paradigma quando si parla di incrocio di arti, che si è dato dal momento in cui l’opera d’arte ha perduto la sua aura primitivaa favore della possibilità di riprodursi tecnicamente su un medium (anzi, su più media). Si parla, a tal proposito, di intermedialità, ossia di incrocio di più pratiche artistiche su più media.

Un’arte su tutte ha incarnato, all’inizio del Novecento, la possibilità di esprimere, nelle differenti specificità, differenti possibilità linguistiche e formali: il Cinema. Il cinema si presenta non solo come “settima arte”, ma anche come medium totale, nel quale appunto possono coesistere insieme elementi artistici figurativi e visivi (pittorici, scultorei o fotografici che siano), elementi musicali (musica, canzone) o genericamente sonori (voci, rumori), elementi performativi (teatro, performance), elementi verbali (dialoghi, scritte, parole) ed altro ancora. Oggi, più che di cinema, si tende a parlare di audiovisivo, ossia quell’insieme di formati (tra cui il primo è appunto quello cinematografico) in cui parole e suoni vanno insieme formando un qualcosa di nuovo: non sono solo due linguaggi che si affiancano, ma sono due sfere che, avviandosi come separate e distinte, ad un certo punto si fondono e vanno a creare un linguaggio nuovo, che prima non esisteva.

Sembra sia accaduto un fenomeno simile anche con la canzone: musica, parole e interpretazione (performance) sono tre ambiti distinti che nella canzone (d’autore, soprattutto) si fondano e creano qualcosa di nuovo, che prima non c’era, talmente tanto che non ha senso dividerle, se non per fine di studio o di analisi.

La canzone può farsi categoria estetica totale?

La risposta non è scontata. Certamente, manca alla canzone un elemento caratteristico di molte altre arti, che la renderebbe debole per ambire al titolo di totalità: l’immagine. Anche sena le immagini, però, la canzone “fa vedere” grazie alle parole, alla musica e all’interpretazione, sopperendo così all’assenza di immagini vere e proprie: per cui, è di per sé un qualcosa di intrinsecamente intermediale Ma, certo, non basta per potersi fare arte “totale”. Quando Wagner parlava di opera d’arte totale, ovviamente, si riferiva anche ai processi di visione: le opere non vanno solo “sentite”, ma vanno “viste”; senza questa dimensione visiva, non si può parlare di opera d’arte totale.

Claudio Baglioni ha ripreso questo antico concetto wagneriano, e ne ha fatto una vera e propria ossessione, che va almeno dalla realizzazione di Q.P.G.A., 2009, fino al concerto che sta preparando proprio in questo periodo, nel quale rappresenterà il concept In questa storia, che è la mia. Quali sono le tappe di questo percorso? E, soprattutto, che spazio è riuscito a dare Baglioni alle immagini e ai processi figurativi plastici e di visione?

Anticipato da una semplice (si fa per dire) tendenza alla commistione tra figuranti e musicisti (pensiamo al tour Assieme e ai suoi successivi sequel fino a Tutto in un abbraccio, 2003), è soltanto con il quadriprogetto multimediale e intermediale ispirato alla hit Questo piccolo grande amore che Baglioni inizia a rendere più concreto il desiderio di creare un’opera canzonettistica che possa ambire all’aggettivo “totale”, facendo ricorso più volte anche alle immagini (nel film, nel FilmOpera e nei vari Tour). Riprendendo una storia vecchia, e già intrinsecamente intermediale (il concept del 1972 era scritto e strutturato sia come un romanzo che come un film o un musical, dal carattere fortemente teatrale), in realtà il Nostro non realizza un’opera sola sincretica, ma ne producediverse, tra cui alcune (il film, soprattutto) dalla fattura e dall’esito estetico piuttosto discutibile. L’idea però c’è: la canzone si può anche vedere, anzi, può essere qualcosa di figurativo, che in sé possa addirittura sintetizzare diverse arti. E può farlo anche grazie al ricorso alle immagini.

Pensavo che Al Centro fosse il punto finale di questo percorso di ricerca d’opera totale: in effetti, la realizzazione dello spettacolo in diretta televisiva del settembre di tre anni fa ha tutte le caratteristiche di “totalità” ipotizzate nella storia dell’arte moderna. Il formato audiovisivo è piegato a diverse costruzioni di senso che si deducono non solo dalla testualità della canzone (fatta di musica, parole e performance), ma anche dalle coreografie e dalle loro riprese televisive (quindi, da processi di visioni che si sostanziano in immagini; immagini, per altro, sono anche quelle proiettate sul pavimento del palcoscenico, che si fondono con le coreografie), che anzi spesso svelano significati allegorici non intrinsechi al brano, ma che si possono dedurre soltanto dalle coreografie.

Insomma, è un po’ come quando in un film si inserisce una canzone in una determina scena: quella scena senza la canzone avrebbe un significato diverso, così come quella canzone, privata di quelle immagini, avrebbe (e ha) un altro significato. L’unione di canzone e immagini (grazie al montaggio e alle scelte registiche) crea un significato nuovo, che non è mai una somma (1 + 1 = 2), ma è sempre un qualcosa di inedito che si crea grazie all’incrocio dei linguaggi.

Beh, così è avvenuto anche per Al Centro: le canzoni si mostravano, “facevano vedere”, e le coreografie al contempo tiravano fuori dalle canzoni qualcosa di nuovo, in un lavoro sottilmente autoriale coordinato dall’unica persona che poteva farlo: lui, il Nostro, Claudio Baglioni, non a caso cantautore-architettoche (proprio come in Q.P.G.A., sia nel romanzo – il cui protagonista è un architetto in carriera – che nella precisa e articolata architettura dell’album, che ricorda i canzonieri petrarchisti quattrocenteschi sia per la tessitura verbale che per quella musicale) ha immaginato per i suoi brani una dimensione architettonico-figurativa, e ha diretto il tutto come un sapiente capo-cantiere e come un pittore.

E invece Baglioni ci sorprende ancora una volta: pare che assisteremo ad una rappresentazione figurativa “totale” di In questa storia, che è la mia, un concept, sì, ma che ha una storiamolto meno narrativa rispetto a Questo piccolo grande amore (anzi, in molti dubitano ancora della sua natura di narrazione tradizionalmente intesa). Non è il primo, Baglioni, a strutturare uno spettacolo intorno a un concept, e non è neanche la prima volta che capita nella sua carriera, ma se le rappresentazioni dei concept storici della musica italiana, che vanno da La buona novella di De André a Infinito di Vecchioni, sono state sostanzialmente musicali (mi riferisco a quelle realizzate dai loro autori, non a re-interpretazioni successive, come la teatrale Buona Novella rifatta da Claudio Bisio), questa volta sembra che assisteremo ad una figurazione plastica e visiva. Di più: questa volta verrà fruita integralmente in streaming, con quindi (si immagina) una particolarità e una specificità audiovisiva ancora più marcata. Immagini e musica si fonderanno ancora di più, e noi saremmo spettatori (a pagamento) di questa fusione. Come essa avverrà, ancora non lo sappiamo.

Quello che appare certo, insomma, è che il cinema/audiovisivo (in streaming) si metta a servizio della canzone, ed insieme le due categorie agiscano con l’obiettivo di realizzare un’opera totale. Il progetto è molto ambizioso. Il punto di partenza testuale è, a parer mio, molto valido, anzi, sono convinto che In questa storia, che è la mia possa svelare i suoi significati più autentici proprio grazie alla linearità della narrazione offerta dalla mediazione audiovisiva. Insomma: capiremo cosa ha pensato Claudio quando ha scritto questa storia che, forse, all’inizio non era una vera storia, ma nella quale poi, in un secondo momento, ogni tassello ha trovato un suo posto.

D’altronde, un altro aspetto che Baglioni ci insegna sull’arte è che è un falso mito l’idea iniziale dell’opera: un’opera non viene mai realizzata come viene pensata all’inizio, ma prende forma mentrela si sta realizzando, come le sculture michelangiolesche o le produzioni letterarie di Petrarca, le cui fasi di produzione/evoluzione sono testimoniante dalla ricerca filologica intorno ad esse.

Allora sediamoci in poltrona, acquistiamo il biglietto (la valenza sociale del ricreare un movimento professionale intorno alla musica in periodo di piena Pandemia penso non abbia bisogno né di sottolineature né di ulteriori commenti) e godiamoci questo nuovo passo di Baglioni verso un’idea di arte totale. Non un nuovo Wagner (e neanche un Wagner nuovo), ma un artista che ha sempre concepito la canzone come connaturata alla dimensione visiva, e che ora, grazie alla tecnologia, ha forse la possibilità di realizzare un suo sogno, che può rappresentare un punto di svolta significativo anche all’interno della storia di tutta la canzone italiana.

Luca

Luca Bertoloni

Nato a Pavia nel 1987, professore di Lettere presso le scuole medie e superiori, maestro di scuola materna di musica e teatro e educatore presso gli oratori; svolge attività di ricerca scientifica in ambito linguistico, sociolinguistico, semiotico e mediologico; suona nel gruppo pop pavese Fuori Target, per cui scrive i brani e cura gli arrangiamenti, e coordina sempre a Pavia la compagnia teatrale amatoriale I Balabiut; è inoltre volontario presso l’oratorio Santa Maria di Caravaggio (Pv), dove svolge diverse attività che spaziano dal coro all’animazione.

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