Curiosità

Presentazione QPGA su Sorrisi

“Quella sua maglietta fina…” Sicuramente uno degli incipit più famosi dell’intera storia del pop d’autore italiano. Impossibile trovare qualcuno che non sia in grado di completare quel verso e cantarne la melodia. Parole che sono presto uscite dall’ambito strettamente musicale per entrare a far parte del linguaggio, dell’immaginario e della memoria di più di una generazione.
Quello che, invece, pochissimi ricordano – e non solo perché sono passati ormai trentacinque anni dalla prima pubblicazione à è che “Questo piccolo grande amore” (l’album, non il brano) non è un semplice insieme di canzoni, come accadeva di solito ai “Long Playing” in quegli anni. Si tratta di un progetto insolito, decisamente ambizioso (soprattutto per un artista non ancora affermato) e per molti aspetti “rivoluzionario”. Un “concept album”, con stile narrativo e matrice espressiva in totale controtendenza rispetto agli standard di quegli anni. Baglioni descrive, infatti, la parabola di una storia d’amore post-adolescenziale: incontro, innamoramento, passione, tradimento, separazione. Un tema tutt’altro che facile da imporre, soprattutto in un paese, equidistante tra ’68 e ’77, che vive l’esplosione del fenomeno “cantautori”. Una stagione nella quale sono le tematiche politico-sociali, più che l’amore, a interessare e “fare tendenza”. Anche per questo, forse, pur scrivendo musica e parole e interpretando da sé i propri brani, Baglioni non sarà mai considerato “cantautore”. Almeno non nell’accezione che il termine acquisisce in quegli anni. Tutto questo, però, non impedisce al ventenne musicista romano di seguire il proprio credo espressivo, né a un disco come “Questo piccolo grande amore” di incontrare un successo tanto inatteso quanto sorprendente e di imporsi subito – a dispetto di mode e parole d’ordine del momento – come ciò che oggi definiremmo un fenomeno di culto.
Ogni elemento di “Questo piccolo grande amore” – struttura dei brani, linee melodiche, sonorità, arrangiamenti, testi – si sviluppa, quindi, sin dall’inizio, al servizio della narrazione, seguendo una precisa “sceneggiatura” della quale, oltre allo stesso Baglioni, sono corresponsabili: Tonino Coggio, pianista e produttore, Tony Mimms, trombettista e arrangiatore e Franco Finetti, clarinettista e ingegnere del suono.La scrittura dell’album, le melodie e le sue atmosfere nascono, quindi, in funzione della storia, su una tavolozza espressiva estremamente ricca di stili e forme musicali. Si va, infatti, dal ricorso a tecniche antiche come gli stornelli romaneschi quasi presi dalla strada, al recitativo cantato ispirato al melodramma (“Che begli amici!”), passando per riferimenti classici (come l’organo a canne) di “Quel giorno”, alle atmosfere country (“Porta Portese), fino a colori e voci presi da ogni forma musicale (jazz, rock, blues, etc).
Inizialmente il brano d’apertura avrebbe dovuto essere “In viaggio”, un pezzo che rappresentava le ragioni del montare della contestazione. Brano che venne tagliato, su pressione della casa discografica, la quale non gradiva l’idea che la storia d’amore potesse essere confusa con tematiche di altro genere. Identica sorte, purtroppo, toccò ad altri brani (in particolare a un episodio nel quale si parlava, con toni ironici e perplessi, del servizio militare) e a diversi momenti strumentali, perché la durata complessiva era troppo lunga e, come ricordato, non era possibile ipotizzare un doppio album.Come una vera e propria “opera” popolare, il disco (che, contrariamente a quanto riportato nelle note di copertina, è stato registrato tra gli inizi del 1972 e la fine di settembre dello stesso anno) è attraversato da “temi” musicali (linee melodiche riconoscibili) che tornano, riproposti in momenti e vesti differenti. Così, ad esempio, “Piazza del Popolo” (da dove il protagonista fugge dopo la carica della polizia, fino a incontrare lei) e “Cartolina rosa” (la stazione del distacco) hanno stessa aria ed identico schema evolutivo; “La prima volta” e “Sembra il primo giorno” condividono la stessa linea melodica, anche se, nel primo caso, l’atmosfera esprime la tensione, la sensualità e il clima nervoso di quel momento; mentre, nel secondo episodio, emerge la lenta, inesorabile, ineluttabile tristezza di un qualsiasi addio. E, ancora: il ritornello dell’incontro di “Una faccia pulita” riecheggia nel distacco ultimativo di “Sembra il primo giorno”, mentre la coda orchestrale che chiude l’album riprende il tema del ricordo dell’innamoramento di “Con tutto l’amore che posso”. Tutti i brani furono scritti da Baglioni nella sua casa romana di allora in Via Prenestina, a eccezione di “Ti prendo come mia sposa”, scritto in una notte insonne a Cracovia, durante un fortunato tour in Polonia, dove Baglioni era già un artista di successo.
Le prime note (“Piccolo grande amore, solo un piccolo grande amore…”) sono apparse nel 1969, all’interno di una sorta di brano – suite dal titolo “Ci fosse lei” (pubblicato, per la prima volta, nella raccolta “Tutti qui” del 2005), ma per la struttura definitiva si è dovuto attendere fino al 1972. Seconda parte, in ordine di “avvento”, è stata quella – più riflessiva, e malinconica, anche per la successione armonica che richiama atmosfere musicali in minore – che è diventata, poi, la terza sezione del pezzo (“E lei,lei mi guardava con sospetto…”). Per terza, invece, nacque – “mugolando qualcosa alla chitarra”, come ha ricordato qualche volta lo stesso Baglioni – quella che sarebbe diventata la strofa vera e propria (“Quella sua maglietta fina…”). E solo per quarta, il “ponte” che lega strofa e ritornello (“Le chiare sere d’estate…”). Dulcis in fundo: l’introduzione, con quegli accordi di pianoforte che ricordano il distendersi e il ritrarsi del mare sulla battigia (un pò didascalicamente sottolineati da un effetto mare in sottofondo), che hanno finito col diventare un vero e proprio “marchio di fabbrica” e che basta accennare per provocare deliranti reazioni da stadio. A quattro anni di distanza dal manifestarsi delle prime note e dopo un percorso creativo tutt’altro che lineare, il brano che avrebbe consacrato Baglioni come stella di prima grandezza del firmamento pop nazionale e avrebbe mandato in visibilio milioni di cuori era finalmente pronto. Anche se non proprio tutti furono in grado di coglierne immediatamente la portata. Dopo aver ascoltato la versione definitiva di quella che sarebbe diventata la canzone del secolo, infatti, l’allora direttore artistico della RCA, si lanciò in un: “Non male. E’ una buona facciata B!”.
Ma le curiosità non si esauriscono qui. Fino all’ultimo istante, infatti, il disco avrebbe dovuto chiamarsi “Con tutto l’amore che posso”. Solo prima di andare in stampa il titole venne cambiato in “Questo piccolo grande amore”, non solo per il forte richiamo della leading track, ma anche – con un certo afflato scaramantico – in omaggio al fortunato ricorrere del numero quattro: quattro gli artefici del progetto, quattro le parti del pezzo “di punta” (che aveva richiesto quattro anni di gestazione!) e quattro le parole del primo verso. Anche la copertina venne cambiata in extremis e la versione a fumetti, opera della mano creativa di Pompeo de Angelis, sostituì una più “classica” foto in bianco e nero (firmata da Romolo Forlai) giudicata dalla RCA eccessivamente “seriosa”.Ma la cosa forse più incredibile è che, alla radio, “Questo piccolo grande amore” venne censurata, per i contenuti ritenuti eccessivamente arditi di alcune espressioni. Fu così che “la paura e la voglia di essere nudi” diventò “La paura e la voglia di essere soli” e le “cose proibite” si trasformarono in “scarpe bagnate”. Scorrendo i testi (scritti dallo stesso Baglioni in dodici giorni di lavoro ininterrotto, in una sorta di neorealistica “lingua della strada”, ricca di espressioni gergali e modi di dire) ci si accorge, tuttavia, che non si tratta degli unici momenti “forti”. Si va, infatti, dal “andate a dare via il sedere!” di “Che begli amici” all’intimità, insolitamente esplicita per l’epoca, di “La prima volta” (“le tue labbra più rosse mi fanno impazzire, i tuoi seni di luna la fronte sudata…”; “i tuoi occhi più larghi i capelli bagnati, i tuoi fianchi impazziti restiamo aggrappati…”), fino alle “strade deserte, colorate di vino bestemmie e di carte…” di “Sembra il primo giorno”.
Piccoli ma significativi elementi, che ci aiutano a capire quanto di un lavoro come questo si possa nascondere dietro le etichette, i luoghi comuni ma anche lo straordinario successo che lo hanno accompagnato. Ma, soprattutto, elementi che rendono “Questo piccolo grande amore” non solo uno dei più importanti momenti di svolta nella storia della canzone d’autore italiana, ma anche l’annuncio di una delle personalità artistiche più significative e innovative dell’intero panorama musicale.

Trascrizione a cura di Sabrina Panfili, in esclusiva per doremifasol.org e saltasullavita.com

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