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Era il 1998. Il 6 di Giugno

11In occasione dell’uscita del primo dvd della collezione del corriere della sera, il concerto negli stadi “Da Me a Te”, pubblichiamo la lettera che Claudio Baglioni inviò ai soci Clab dopo quel tour. Ci ricordiamo tutti dei problemi che si presentarono a contorno del mega concerto del 6 giugno: conta delle persone, fischi, promesse mancate da Clab, clabber che assistono e creano disagi alle prove etccc. Chi partecipò da clabber non poté non rimanere deluso per tutto questo e molti si sono sentiti in diritto e giustamente di fischiare Claudio in quel pomeriggio afoso di giugno. Però questa lettera, arrivata qualche settimana dopo,  ci ha insegnato qualcosa: ci ha insegnato a non essere prevenuti, ad aspettare prima di condannare, a giudicare avendo prima tutti gli elementi a disposizione, a non criticare ciò che non conosciamo, a non assumere dal nostro divano ruoli che non ci competono e di dare un po’ più di fiducia a quel Nostro Amico cantante che tante gioie ci regala, ma che se anche qualche volta cade in fallo è capace di assumersi le sue responsabilità. Noi invece, ce le siamo mai assunte?

Ringraziamo Orietta per la faticosa trascrizione la quale ha motivato questo suo “lavoraccio” nel migliore dei modi: “L’ho trascritta perché avevo paura che un giorno potessi perdere la lettera e non avrei avuto più modo di rileggere quelle parole”

Era il 1998: quei giorni e queste parole non le dimenticherò mai

Ho diviso questa lettera in due parti. Nella prima parte vi scrivo come autore e artista. Nella seconda come Presidente dell’Associazione Clab.

La marcia verso lo Stadio Olimpico inizia 16 anni fa.

Scopo: conquistare un ideale. Non userò la parola sogno. Ho capito, in questa vicenda, che i sogni di fanno “in solitaria”. Se li ficcano in testa i visionari, tipi un po’ strambi che andrebbero ingabbiati per quanti danni procurano. Ingabbiati come sono dentro i loro stessi sogni. Preferisco perciò parlare di ideale. Un ideale si può raggiungere insieme. E l’ideale, in questo caso, era occupare con la musica uno spazio nuovo, mai invaso interamente, dare un segnarle positivo, sconfiggere l’inesorabilità delle cose che vanno sempre allo stesso modo. L’ideale era offrire, a un grandissimo numero di persone, la possibilità di assistere a un concerto senza rischiare l’osso del collo, potendo vedere e sentire al meglio (ottenibile), senza dover fare chilometri a piedi per trovarsi in spazi inventati al momento, pericolosi, trattati come cani da abbeverare con il tubo dell’acqua. L’ideale era entrare in quell’arena non da solo ma con un gruppo di persone “scelte” (voi che leggete) e, insieme, animare la notte più bella del mondo. Un cammino di 16 anni, a colpi di partecipazioni a convegni noiosissimi e strumentalizzati politicamente sulla musica e sugli spazi mancanti, a richieste su richieste per ottenere quelli possibili, a rinunce verso occasioni che avrebbero nuociuto a questo percorso-pensiero.

Finalmente l’anno scorso uno spiraglio. Poi, purtroppo, un misterioso e indecente balletto tutto durato quattro mesi tra si, no, chissà. Infine il mio doloroso basta. Seguito da una risposta così abile e così ben orchestrata con il concorso dei mezzi di comunicazione, che alla fine sembrava fossi io ad aver torto e paura. Per ciò e per un maledetto ideale raccoglievo la sfida. Tremenda.

In 34 giorni mettere su il progetto più ambizioso e complesso della mia carriera. Con meno di un quarto del tempo necessario. Con nuovi collaboratori. Perché, nel frattempo, alcuni dei vecchi e fidati si erano giustamente impegnati. Senza aiuti esterni, senza sponsor poiché era troppo tardi.

Primio problema: lo stadio più che grande, è enorme. Una dimensione longitudinale di 301 metri. Che si fa? L’unica soluzione è un palco al centro. Le distanze così si dimezzano. Ma non basta. Si pensa di costruire anche quattro rampe che arrivino fin sotto gli spalti. Un palco con una superficie di 1200 mq. Non è ancora sufficiente. Per arrivare più vicino possibile a tutto il pubblico utilizzeremo che la pista di atletica (almeno per 4/5 brani). Non potendo, logicamente, usare microfono con il cavo, dobbiamo provare microfoni e auricolari con trasmissione radio. Sullo Stadio Olimpico incombono i ripetitori RAI e Telecom e c’è una tempesta di radiofrequenze.

Scopriamo che da mesi esistono denunce per inquinamento magnetico. Fino a due giorni prima del concerto i microfoni e gli auricolari sganciano e interrompono il segnale almeno una volta ogni dieci secondi. E’ il panico. Riusciamo con una ditta specializzata a schermare quasi completamente il palco centrale dalle interferenze esterne. Ma non è possibile su tutto il resto della superficie. Che fare? Restare inchiodati al centro dello stadio, più vicini e visibili? Si sceglie di cautelarci durante i pezzi periferici con una voce guida, fatta durante le penultime prove. Artisti come gli U2, Michael Jackson, Madonna, Prince, Pink Floyd, David Bowie, Peter Gabriel e mille altri, stranieri e italiani, usano spesso, ai fini del risultato, contributi preregistrati o tracce computer. Così come un click, un metronomo elettronico, perché più ci sono distanze tra gli strumenti e più si allargano i battimenti ritmici. Riportiamo tutti gli strumenti via cavo, eliminiamo alcuni meccanismi spettacolari. Per i brani sulla pista di atletica sarebbe comunque stato impossibile fare a meno dei contributi complessivi perché non esiste trasmissione pulita per 200 metri lineari e tra il momento dell’esecuzione e il relativo ascolto, per la velocità del suono, passa quasi un secondo. Un ritardo mostruoso per cantare e suonare. Specie passando sotto i gruppi di altoparlanti destinati al pubblico. Nessun essere umano potrebbe orientare il proprio cervello-orecchio in questo inferno acustico. Continuavano a presentarsi inoltre black aut totali, cadute di segnale, scrosci e rumori di ogni tipo. I fonici di palco e di missaggio esprimevano fortissime riserve e preoccupazioni anche perché in alcune zone dello spazio scenico sia i radiomicrofoni (a cuffietta) che gli agricolari finivano per diventare antenne provocando strane e metalliche risonanze oltre a improvvisi buchi di silenzio. Dopo una lunga analisi e una mia iniziale perplessità, i tecnici venivano autorizzati, discrezionalmente, ad usare, nel caso si presentasse la necessità di evitare un’interruzione sgradita o una imperfetta ripresa, alcune voci di riserva. Più tardi, altri inconvenienti si annunciavano con l’uso di moltissimi cellulari GSM. Su questa (non auspicata) determinazione agivano tutte le argomentazioni alla basa di questo progetto-concerto. La mia intenzione era di approntare un tipo di rappresentazione che comprendesse molti generi di espressione. Uno sviluppo del Tour Rosso verso il Blu. Una proposta articolata sulle esperienze già fatte, ma questa volta con la sperimentazione della prevalenza dell’immagine e delle immagini. Come avevo dichiarato “un inizio di Blu”. Chi ha seguito le cosiddette Vie dei Colori sa a cosa mi riferisco. La problematica da risolvere era, ancora una volta, la “gigantezza” del luogo. Pensando al progetto Stadio Olimpico come a una prima volta, ma anche ultima, unica, irripetibile si presentò ai miei occhi l’idea di una attuazione mista, una grande cerimonia di apertura una festa-racconto con canzoni, dei tratti potenti, con il senso della dismisura per corrispondere a quelle dimensioni e a quei significati. C’è ancora al mondo qualcuno che pensa che si possa tenere un concertino da camera in mezzo a 90.000 persone così distribuite? E i tanti saputoni dove metterebbero il palco? L’impegno (o l’ideale) era di inventare e fabbricare in 34 giorni un giocattolone con un milione di luci, sorprese, incanti e canti. Una scatola aperta, fantastica e reale, marziana e terrestre, astroporto o pontile, che contenesse allegria, commozione, sobrietà, esagerazione, semplicità e allegorie. Un intrattenimento di fine millennio quando, come in altre espressioni, a vasi comunicanti, le arti si toccano e si mescolano. Arti varie. La poesia ingenua e la dura cronaca, l’innocenza della carnalità e l’avvilente volgarità dei nostri giorni. Tre ore e più di viaggio nello spazio-tempo delle emozioni. E solo 34 giorni per fare tutto questo. Non tutto (forse) è stato affinato al meglio e alcune scelte parziali possono e devono far discutere. Ma chi s’interroga su “perché non chitarra, pianoforte e voce” cosa ha capito? E chi, ostinatamente e premeditatamente, gratta con l’unghia dell’indice una piccola macchia su una superficie linda e trasparente, perché non si dedica a pulire il cesso di casa sua? Non si è accorto in che condizioni sia?!

L’impegno (e l’ideale) di un artista è quello di battere le strade del suo mondo espressivo, tutte le conosciute e, ancor più, quelle sconosciute. Andare in avanscoperta, aprire nuovi sentieri, anche a costo di ritrovarsi in un vicolo cieco. Ma questo deve fare, rischiando pure di dispiacere, di sbagliare. Deve saper mettere in palio la fama che ha guadagnato, la fortuna che ha avuto. E deve, infine, saper essere libero (non schiavo della sua immaginetta, del suo cliché) per sé e per coloro che si interessano a lui. In 30 anni di carriera artistica, molte volte, mi son trovato nella condizione (=solitudine) di aver “stranito” gli altri (o una parte di loro) o di aver voltato pagina in un romanzo che procedeva senza salti di cuore o colpi di scena. “Questo piccolo grande amore” fu, allora, un album rivoluzionario, poi “Solo”, “Strada facendo”; su “Oltre” si smarrì più di qualcuno (e quante critiche) e confido che il mio prossimo album sia appassionato, scuotente, innovativo. E i concerti? Da “Alè-Oò” (e tutti dicevano che ero matto a tentare gli stadi) ad “Assolo”, che resta uno dei più incredibili progetti mai realizzati; da “Oltre il concerto” (con palco al centro), il Tour Giallo (su un camion), le discoteche a sorpresa, al Tour Rosso e tutte le sue derivazioni teatrali. E le iniziative? Da quella di affrontare la terribile televisione (senza gli aristocratismi di alcuni cantanti che fan finta di condannarla e poi li vedi in tutte le trasmissioni a promuovere il loro ultimo disco) a quella di andare al Festival di Sanremo per ricevere un premio, cantare (unico) dal vivo e costringere, l’anno dopo, tutti a fare la stessa cosa. Da quella di far esibire gruppi emergenti e non la solita parata di stelle a quella di contornare i concerti con incontri, visite, mostre, alte forme di creatività. E le tante occasioni speciali? I raduni? Nessuno chiede onorificenze per questo, anzi c’è chi dice che sotto ci sia qualcosa di patologico, ma io spero di non guarire. E dopo 30 anni di provare ancora tante voglie e tanta curiosità. E non pretendo di avere sempre la condivisione totale. Ma l’attenzione, l’intelligenza e il non pregiudizio delle opposizioni, si. E’ indubbio, che la scellerata condizione di organizzare quest’ultimo avvenimento in così poco tempo, abbia comportato errori, nonostante i 3 miliardi spesi solo per i concerti. Ma questi errori scompaiono di fronte alla sensazione di meraviglia festosa ed estasiante di moltissime persone che non appartengono alla categoria dei contatori di peli o dei fabbricanti di fango. Persone che sanno cogliere una palpitante emozione globale, premiando un lavoro che, senza imbarazzo, definisco durissimo. Due settimane, giorno e notte dentro uno stadio tutto da scoprire, capire, con una somma di difficoltà tecniche e logistiche veramente impressionante. Il mio bilancio, con tuta onestà, è decisamente positivo, alla luce di tutte queste considerazioni e di altre brutte storie che vi risparmio.

La stessa TV non ha invaso l’avvenimento (quante telecamere si son viste?) e vi assicuro che lo spettacolo è stato pensato e disegnato prima dell’intervento televisivo. Anzi, la ripresa ha permesso a chi era più lontano (ma lo sapevamo tutti che lo Stadio Olimpico non è un teatrino da 800 posti!) di cogliere piani narrativi, costumi, sottolineature e metafore. E mi conforta, da ultimo, lo straordinario successo di ascolto, considerando il sabato di giugno e la durata del concerto.

Il pubblico della TV non è composto da affezionati quindi c’erano degli ingredienti di presa, fascino e qualità. Infine i critici musicali di “Billboard” hanno segnalato il concerto in gara per il migliore dell’anno del mondo. Premio vinto in precedenza dai mie concerti del ’92 e del ’96.

La seconda parte di questa lunga lettera la scrivo come Presidente dell’Associazione Clab.

L’organizzazione O.A.I., titolare del concerto, aveva avuto notizia di agibilità, per il prato, per 8.000 spettatori, togliendo altrettanti posti dalle Curve Nord e Sud. La mia proposta all’Organizzazione era di destinare quel settore agli associati Clab, consentendo l’ingresso intorno al palco anche per effettuare numeri coreo-scenografici. L’O.A.I. ci dice che la SIAE non permette la distribuzione di così tanti biglietti omaggio. Per questo si decide un prezzo simbolico di 5.000 lire. A sei giorni dal concerto la Commissione di Vigilanza dichiara un’agibilità di 1.500/2.000 ingressi. Opponiamo (io stesso vado a parlamentare in commissione) ragioni, misurazioni, precedenti. Non c’è nulla da fare. Domandiamo come mai un progetto presentato un mese prima con tanto di “cavalconi” per le uscite di sicurezza possa essere cambiato l’ultima settimana. Ci rispondono che questo è l’iter. Alla fine ci convinciamo di accettare queste risoluzioni perché si ricevono assicurazioni, purtroppo solo verbali e ufficiose, che comunque non ci sarebbero stati problemi e che fino a 4.000 persone avrebbero avuto accesso sul prato. Per fortuna, Clab aveva prudentemente sospeso a 4.000 gli ingressi sul manto erboso. Il giorno 5, incredibilmente, si assiste, per la prima volta nella storia dei concerti, a una conta numerica. Con uno stadio vuoto! Il Responsabile di PS dichiara di aver avuto queste disposizioni e per 2 ore e mezzo succede quello che i presenti conoscono e che io non dimenticherò mai. A seguito dell’avvilente scena del travaso da un settore all’altro che io ho annunciato (per non creare pericolose reazioni) come conteggio per l’assemblea, ma che, veramente, serviva a ottenere le norme sull’agibilità, saltano tutti i nostri orari e programmi: il benvenuto, una spiegazione sul “Progetto Olimpico”, le istruzioni su cosa si poteva fare insieme per il concerto. E poi, la stessa assemblea. Per evitare un doppio spostamento dei soci nel giro di poco tempo (era necessaria fare l’assemblea entro il 30 giugno) si era pensato di approfittare delle prove del 5 e della postazione prato per svolgere entrambe le riunioni (ordinaria e straordinaria). Come sapete, il misterioso contrattempo del conteggio (misterioso perché alla fine sono entrati sul prato tutti i presenti!) ci ha portato a pochi minuti alle nove di sera, quando dovevano partire le prove generali del concerto. Questo spiega (lo so che non giustifica) la brevità e la concitazione dell’assemblea. A quel punto, non era più pensabile organizzare il programma delle coreografie. Metteteci la stanchezza e lo scoramento. Considerate (anche se non potevate, allora, saperlo) i mille ostacoli superati nei giorni precedenti per il villaggio Stadio Aperto (un “miracolo” allestito in due giorni) e tutti i problemi tecnici che vi ho illustrato nella prima parte. In più, pure avvertendovi (anche se velocemente), succede il caos del giro con l’automobile e la successiva non effettuazione di una parata sulla pista per il brano “Da me a te” (per il quale avevamo previsto una fila lunghissima di bande su una base musicale). In quel momento, e l’ho detto, ho definitivamente temuto che non ci sarebbero state più speranze. Nella tarda mattinata del giorno seguente, mi è arrivata la conferma. Solo 1.500 persone. Come spiegare agli altri 3.500 che, loro no, non potevano entrare? Quale criterio di scelta per i 1.500? Ho deciso io (e me ne debbo assumere tutte le responsabilità), che non c’erano altre soluzioni e, con la morte nel cuore e un’ansia mai provata prima, ho stabilito di trovare un posto sugli spalti. Anche qui, un altro problema. Sulle due tribune non c’era più spazio, perché, come vi ho raccontato, gli 8.000 del prato erano stati decurtati dalle due curve. Quindi un ulteriore, micidiale smacco. Inoltre, i cancelli Clab venivano aperti alle 16,30 e non alle 15,30 come accordato, per il tardato arrivo delle forze di polizia. Venivano, poi, improvvisamente chiusi alle 17,30 per disordini (o paura degli stessi) tra pubblico e le forze dell’ordine. Nello stesso momento si cambiavano, più volte, porte d’ingresso su indicazione della Commissione di Vigilanza. Finalmente i Clabber entravano e mi toccava (non so quanti altri miei colleghi l’avrebbero fatto, nascondendosi, piuttosto, dietro disfunzioni organizzative e deresponsabilizzandosi), tra fischi e improperi, spiegare, almeno, quello che sapevo. Eppure, avevo, di lì a poco, uno spettacolo da fare, importantissimo, difficile, audace, malauguratamente poco provato. Avevo un mestiere da svolgere. Un sogno da completare. Che, come in un paradosso, si stava trasformando in un incubo. E sentivo crescere in me una rabbia tremenda per quest’ingiustizia. Avevo mandato giù tanti rospi pur di arrivare a questo appuntamento. Lavorato e fatto lavorare tutti come bestie per supplire al tempo fattoci perdere. Speso miliardi per offrire qualcosa d’imponente, di indimenticabile. Come mai avevamo avuto una sommatoria di controlli, verifiche, contestazioni mai accaduta prima? Io non voglio credere ai complotti, alle congiure, ma quante coincidenze! E’ vero, sbagli se ne fanno per ingenuità, per troppa smania di promettere e la disavventura di non riuscire a mantenere. Per esempio le magliette-ricordo, con tutto il macello successo il 6, venivano consegnate (in mezzo ad altri impedimenti) il giorno 7. C’era stato anche il mancato recapito di una decina di biglietti, spediti con raccomandata, tornati al mittente (Clab) e comunque dati al botteghino. La mia proposta di far valere i biglietti-prato (di chi volesse e potesse) anche per il giorno 7, veniva, da alcuni, giudicata un “contentino”. Mi sono chiesto, credetemi, “Perché tutto questo? Che senso ha?” Clab avrà pur presentato nei, difetti, ritardi ma non la minima speculazione per guadagnarci sopra. Anzi, l’Associazione costa molto di più di quello che può garantirsi con le quote. Esistono associazioni che hanno contribuzioni sostanziose sia private che pubbliche e che, pur non esistendo di fatto, non ricevono né lamentele né contestazioni. Clab, in questa occasione, ha fallito e disatteso le condizioni privilegiate che aveva prospettato ai suoi soci anche se queste erano certezze stabilite e assicurate da altri. Ma Clab ha, altresì, organizzato (con difficoltà, visti i numeri) raduni e altre occasioni con contenuti assolutamente particolari ed esclusivi. Io, alla fine dello spettacolo, in maniera confusa e un po’ tribunizia avevo cercato di vendicare colore che avevano subito un torto. Con una specie di sberleffo, un pernacchio che già mi è costato e mi costerà molto in futuro. Ma, nei giorni seguenti, ho dovuto persino assistere all’irrimediabile e vendicativa sciocchezza delle lettere mandate ai giornali (dai Clabber). Offrendo a questi il piattino gustoso delle ripicche, delle insinuazioni. Non aspettavano altro per sbranarmi. Beninteso, come Claudio Baglioni. Non come Presidente del Clab. Che volete che gliene freghi di Clab? Ai giornalisti, ai lettori e agli spettatori? Ma la stupidità non ha confine. E come, chi ha seguito la mia storia professionale, non ha capito ancora che io non ho mai goduto di protezioni da parte della stampa e degli addetti ai lavori? Non ho mai stipendiato critici e cronisti. Ogni volta che è stato possibile sono stato infilzato e messo allo spiedo. Alcuni miei colleghi sono coperti da una vita e, beati loro, pure in circostanze molto delicate, riescono a cavarsela. Il mio impegno, appena possibile, sarà di dare una dimensione, un significato, una regola definitiva a Clab. Non vorrei però che queste frasi suonassero come opportune, ipocrite e inutili scuse. Non chiederò ad alcuno di mettersi nei mie panni. Me li sono sudati, mi appartengono. In fondo mi ci trovo bene e non li cambio con quelli di nessun altro. Non chiederò di dare i miei stessi sogni. Magari idee e ideali trovati per strada, sempre che quella strada passi dalle nostre parti. Altrimenti bisogna mettersi in cammino, ma ci vogliono fiato, gambe e coraggio. Tanto coraggio. Il mio augurio, per tutti, è quello di avere i propri sogni e, se si può, di realizzarli. Ma l’importante è continuare ad averli, dentro gli occhi. La notte dell’Olimpico, alla fine di “Notti di note” mi sdraiavo, per qualche istante, su un letto, portato dal tapis roulant sul palco. Partiva il mio sogno: la notte di note più grande della mia vita.

Poi nel brano successivo, il letto si riempiva di sbarre, diventava una gabbia.

Dicevo all’inizio che i visionari sono prigionieri di un sogno, un delirio, una passione e che c’è sempre qualcuno che li vuole carcerare, costringere in un cella. Ma nella canzone dopo sono già evasi, fuori. Il sogno li ha portati altrove. Puoi catturarli di nuovo e ancora. Ma ancora e sempre ci riproveranno.

Claudio Baglioni

Grazie ad Orietta per averci fornito questo prezioso scritto di Claudio Baglioni

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redazione

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