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Rievocazione del capolavoro di Claudio Baglioni

RIEVOCAZIONE DI UN CAPOLAVORO

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Mi perdonerete il titolo, che richiama in parte quello già utilizzato sapientemente da Filippo Maria Caggiani, critico musicale e mio conterraneo, nel suo libro del 2010 da cui ho preso diversi spunti illuminanti. Ma sinceramente, dopo averci pensato lungamente e cercato degne alternative, il titolo non poteva che essere questo. Rievocazione di un capolavoro. L’analisi attenta e argomentatrice la lascio agli esperti nel campo. Io mi affido a rievocare e quindi a ricordare un’opera musicale pop che forse di pop ha solo il pubblico, il destinatario ultimo.

Il 17 novembre del 1990 usciva l’album “Oltre” di Claudio Baglioni con il sottotitolo “un mondo uomo sotto un cielo mago”. Un disco concept doppio con 20 tracce incentrato sulla storia di Cucaio (personaggio di fantasia ma non troppo) che si avventura in un viaggio intimo, e per certi versi anche mistico, in cerca di risposte fra le cose del mondo.

Un disco definito Kolossal come nelle migliori tradizioni cinematografiche. Un’opera eletta dalla critica come il capolavoro della musica italiana , un lavoro musicale imparagonabile a qualsiasi altra produzione nota in Italia.

Avevo da poco terminato il servizio militare, avevo concluso gli esami ed avevo da poco iniziato l’interminabile lavoro sulla mia tesi di laurea. L’orologio biologico batteva il tempo dei 26 anni ed ero in totale frenesia pre album in quell’autunno del 1990. Anche perché dell’uscita del nuovo disco se n’era parlato già nell’estate del 1988 associandolo ad una collaborazione con Peter Gabriel e successivamente nell’ottobre dell’anno successivo con l’anticipazione del titolo che sarebbe dovuto essere “Un mondo più uomo sotto un cielo mago”, con tanto di possibilità di prenotazioni negli store discografici. Due giorni prima un Claudio frastornato e insicuro, anche per via di un incidente automobilistico che una decina di giorni prima lo aveva messo a rischio dalla possibilità di continuare ad essere un cantante, era salito sul palco di Maurizio Costanzo. Lui da solo con il rientro inedito in scena dopo 5 anni di silenzio.

Il luogo era il soggiorno di casa. Lo stereo era un pioneer di inizio anni ottanta con le due casse disposte al tetto di un’angoliera e di una credenza. La cuffia era minimale, ma svolgeva il suo ruolo dignitosamente. La sedia era una comune sedia contro il muro. La copertina del 33 giri era bellissima. A dominanza di rosso ritraeva a più di un quarto dell’immagine Claudio che a dorso nudo si piega all’indietro in un lamento, con a riempimento una pittura informe e puntiforme che poi negli anni ho saputo richiamasse quella degli aborigeni australiani (e già questo per me è figo). All’interno due buste contenente i dischi e pertanto 4 facciate, con disegni che illustrano in modo allegorico i quattro elementi di acqua, fuoco, terra e aria (anche questo continua a essere figo). Il disco era senza i testi delle canzoni. All’interno però un lungo testo scritto con i bordi non “giustificati”, ma ondulati tipo il ripetersi di un’onda. La tecnica narrativa era simile a quella del flusso di coscienza. Pochi punti, poche virgole, accenni ad immagini ripetitive che poi vengono significate da azioni e che si riallacciano a concetti successivi in un complessivo caos narrativo che richiama proprio il flusso dei pensieri gettati su di un foglio e volutamente riorganizzati in una storia, viaggio, e percorso intimo e personale (anche questo è strano e pure figo). Già scoprire i primi contenuti e le fattezze del confezionamento del disco erano elementi di impatto non trascurabili. Ero curioso, impaziente e in piena estasi.

Iniziai ad ascoltare. E dopo la prima traccia “Dagli il via” che apriva l’album e che già avevo ascoltato in radio come promo, mi accorsi che facevo fatica a capire le parole. Non il loro significato, ma proprio le parole cantate da Claudio. Ma come era possibile? Nell’immediato cercai di farmi aiutare dal libretto scritto e mi accorsi che alcuni testi cantati erano parzialmente presenti. Certo nell’immediatezza del momento tutto era davvero complicato. Non riuscivo a capire, ma poi con il tempo capii tutto. Capii che ogni cosa vissuta con quel disco era cercata e voluta dall’autore. Il disco fu infatti registrato volutamente con la voce cantata lievemente più bassa rispetto ai volumi strumentali al fine di creare all’impatto un tutt’uno fra cantato e musica. Questo tecnicismo voluto e ricercato non aiutava nella comprensione immediata del testo. Claudio forse voleva condurre l’attenzione ad una ricerca più minuziosa e attenta. Nel giro di pochi giorni uscirono le riviste con i testi e la comprensione fu poi ampia. Con il tempo capii tutto. Con il tempo capii che era un disco bellissimo, rivoluzionario, unico. Con una pluralità di riferimenti culturali e filosofici.

Che era un capolavoro.

E’ l’album Everest di Baglioni. Uno dei dischi altissimi e inarrivabili della musica italiana d’autore. E’ un album confessione, il più intimo, il più fragile, il più autobiografico. Cucaio è il protagonista ed il suo nome deriva dalla parola che Claudio da bambino pronunciava chiamando se stesso. Cucaio rappresenta la natura magica dell’uomo, come lui stesso rivelò in un’intervista nel dicembre del 1990.

“Cucaio è la parte magica del disco, di questo cielo mago che non è qualcosa di impalpabile, ma è terreno. Cucaio è l’uomo che non sa pronunciare bene il proprio nome, che non sa da dove tragga origine né dove stia andando; quali siano le sue ansie, i suoi problemi e le sue gioie. Credo esista, nella vita di ognuno, una parte umana e una magica: la prima è quella che soffre di più, perché nel tentativo di confrontarsi con la seconda sa di non poterla emulare. Cucaio è questo, e rappresenta il momento in cui, oltretutto, lo si deve abbandonare per passare oltre”.

L’album fu registrato per buona parte a Real World Studios negli studi di Peter Gabriel, che nello stesso periodo era intento a produrre le musiche per la colonna sonora di “L’ultima tentazione di Cristo” di Martin Scorsese. Era il 1988.

Gli studi avevano un’acustica molto bella. Per esempio la stanza della batteria aveva due soffitti aperti e con una scala esterna si andava a mettere il microfono a otto/nove metri di altezza per prendere il totale della batteria, come ha riferito Pasquali Minieri, collaboratore di Baglioni, in un’intervista rilasciata a Filippo Maria Caggiani.

I testi, le musiche e la produzione sono di Claudio. Gli arrangiamenti di Celso Valli. La realizzazione e il missaggio sono di Pasquale Minieri. Nell’album però figurano musicisti di fama internazionale come Pino Daniele, Mia Martini, Paco de Lucía, Youssou N’Dour, Didier Lockwood, John Giblin, Pino Palladino, Steve Ferrone, Danny Thompson e la band di Peter Gabriel. Fra i presenti anche Oreste Lionello voce recitante in “Dov’è dov’è” e nello stesso pezzo anche i suoi genitori Riccardo Baglioni e Silvia Saleppico, il suo ex insegnante Mario Pescetelli e la domestica di casa sua quando era piccolo Teresita Lastoria.

Ne è uscito un progetto innovativo sia nella stesura dei testi che nelle ricerche musicali. Ambizioso, minuzioso, attento sino all’esasperazione e all’ammattimento artistico e per questo scritto e riscritto per ben tre volte. Un lavoro discografico che ricerca, abbraccia e impronta culture differenti, che trasuda uno sforzo compositivo e creativo senza precedenti sia per il volume del disco (99 minuti la durata), che per la qualità musicale e dei testi di altissimo livello. Si racconta che per lunghissimo tempo Claudio migrò in un casa ad Ansedonia, sul mare della bassa Toscana, per comporre. Ed il materiale prodotto fu molto di più di quello che poi finì nel progetto di Oltre. Molte canzoni scartate finirono infatti nei due album successivi che con Oltre compongono la trilogia anni novanta. Per esempio le canzoni “Le vie dei colori”, “Fammi andar via”, “Un mondo a forma di te” ci sarebbero state benissimo in Oltre.

Un disco-viaggio dell’io introspettivo tra l’essere terreno e la condizione sognante di ognuno di noi difficile da emulare. Dalle citazioni omeriche a Simbad e Gilgamesh, dai riferimenti danteschi alle etnie in via d’estinzione, dal rimando a Ustica, Timisoara, Cernobyl, Heysel, Medellin, Tienanmen, alle musiche popolari africane e a quelle della tradizione indiana.

Un lavoro di caratura internazionale, anche nei gironi di differenti appartenenze musicali, come poi si è rivelato. Si spazia infatti dalla musica afro, a quella indiana, dal country, a riflessioni jazz con l’immancabile incedere melodico classico. La cura dei testi è maniacale con un alto valore poetico, ritrovando forme ricercate di allitterazioni, onomatopee, ossimori e giochi linguistici difficilmente riscontrabili in canzoni di musica leggera.
Un fare musica che è anche un vinile rotondo per far girare cultura. Insomma un disco che fissa una data, un prima e un dopo, come che dire avanti “Oltre” e dopo “Oltre”.

L’album si apre con “Dagli il via” nel cui incipit si sente l’affanno o il fiato grosso di un uomo che sta correndo. La cosa curiosa è che questo rumore ansimante è di Walter Savelli, fido tastierista di Claudio, il quale, terminato il suo lavoro in sala di registrazione e già in vacanza con la famiglia, fu richiamato nel giro di un paio di giorni da Claudio a fare il mestiere di mettersi a correre su di un prato con un microfono in mano. È il pezzo che come dice il titolo dà lo star al disco e all’uomo che corre l’ora del gallo verso un luogo senza meta portandosi dietro tutto ciò che c’è alle spalle.

La seconda traccia “Io dal mare”, che è, a pare mio, uno dei pezzi più coinvolgenti musicalmente, rievoca il mare della nascita. Anche in questo c’è un ritorno al passato, al mare in cui Claudio nacque e addirittura all’origine del classico ellenico come cita l’apertura del libretto, in accompagnamento al disco, che Claudio nomina come lo scritto che contiene i gusci dei pezzi.

“Cucaio viene dal mare. Come l’umanità. Anche il cavallo vi nasce. Poseidone scagliò il tridente su uno scoglio. Ed ecco il cavallo e il suo sangue spagnolo e il lamento flamenco di Cucaio nell’attesa di un domani che non c’è.”
Il finale di chitarra di Pino Daniele con i suoi lamenti di voce è sublime.

In “Naso di falco” (forse anche vaga allusione al naso aquilino di Claudio) Cucaio si innalza sopra le cose e si pone le prime domande che un uomo bambino ingenuamente fa. “I pesci ed i coralli hanno mai veduto le montagne” oppure “se è maschio o femmina il mare” e anche “se i cavalli delle giostre corrono le praterie” per citarne alcune. Sino poi a domandarsi cose più serie che non hanno mai avuto risposta come Ustica, Timisoara, Chernobyl, Heysel.

“Io lui e la cana femmina” è la quarta traccia e Baglioni vorrebbe che uomini e animali fossero uguali o meglio riuscissero ad unificare tra loro le sensazioni del vivere, quelle spontanee e più vere, così forse da non sentire i mali del mondo e vivere spensierati. Baglioni se ne va i giro con i suoi due pastori tedeschi con “bastoni sassi volati in aria/dentro gli occhi pronti via/e le rincorse alleprate/le frenate le lingue rifiatate” sino a “Uomini o animali potremmo stare bene/da uguali/ anche imbarcarci in un porto/correre a girotondo il mare/ e non tornare più”.

“Stelle di Stelle” che chiude la prima facciata è un pezzo da cultori musicali ed e cantata in duo con Mia Martini. Il brano ha una composizione complessa e originale con una chiara impronta jazz che richiama al musicista solitario nei locali fumosi e ombrosi di luce al neon blu. Il riferimento è alle stelle dello spettacolo e a loro desiderio di restare immortali.

“Vivi” apre la seconda facciata. Amo molto questo pezzo scritto in modo sublime. Sono espressi i trascorsi di due amanti che ricordano un passato acceso, con immagini erotizzate in una passione allineata ai quattro elementi della vita di terra, aria, acqua e fuoco, che ora non c’è più. La traccia presenta la successione melakarta tipica della musica carnatica indiana. I due protagonisti torneranno comunque ad amare come prima, probabilmente con altri amanti, mentre il pezzo termina in modo spiazzante, come è iniziato, ricordando che il nostro vivere ci porta lontano da chi soffre e muore perché è distante e a volte neppure lo si sa. Nel finale in una successione ripetitiva, che richiama appunto la tradizione musicale indiana, vengono citati i nomi di popolazioni appartenenti a gruppi etnici in via di estinzione:

  1. Ainu Akha
  2. Lacandon Tasaday
  3. Nambikwara
  4. Gond Maori Masai
  5. Kuna Hopi
  6. Yanomani Semang
  7. Onge Kogi
  8. Waorani Penan
  9. Caingua Veddas
  10. Sammi Caraja
  11. Inuit Abbos
  12. Tuareg Jurana

In “Le donne sono”, settima traccia, c’è il disperato e anche ironico tentativo di descrivere le donne e in questo la candida ammissione di non riuscire mai a comprenderle fino in fondo. Il pezzo termina con una serie di parole che terminano con la stessa assonanza e non hanno nell’insieme in senso. “Lande tundre giungle feconde/ombre zombi calimbe macumbe/fionde pitonghe sghembe malandre/blande jumbe simbe mocambe”. Questo è solo l’inizio. Inutile capire, probabilmente come le donne.

“Domani mai” è un pezzo dove musica e parole si fondono in maniera magica. In un’intervista Lucio Dalla disse che è la canzone che avrebbe voluto scrivere (c’è sempre stata grande stima e ammirazione reciproca fra i due). Anche qui c’è la chiara descrizione di due persone che si amano in modo fisico con immagini magistrali che evocano sensualità e passionalità. Il timbro ispanico e impreziosito in modo rilevante dalla chitarra magica di Paco de Lucia.

“Acqua dalla luna” è un Everest assoluto. Il testo è magistrale, la musica gli si affianca con sonorità ricercate e una melodia potente e armoniosa. L’uomo che vuole essere artista per incantare il mondo e fare accadere cose impossibili, si scontra con l’impossibilità di porre rimedio alle sofferenze e ai mali veri. In questo pezzo il raffronto fra la natura terrena e l’estasi magica è evidente.“Volevo essere un grande mago/incantare le ragazze ed i serpenti/mangiare fuoco come un giovane drago/dar meraviglie agli occhi dei presenti” si scontra con “restavo zitto a fianco/ quando mamma stava male/e sembrava Pulcinella/dentro il pigiama bianco”.

Con “Tamburi lontani” altro Everest assoluto, si chiude il primo disco. E’ probabilmente la marcia funebre di Claudio, dove l’organo è lo strumento in primo piano. E’ un pezzo cardine e centrale dell’intera opera e non a caso chiude la seconda facciata ed è la traccia numero dieci che segna la metà del percorso. Intima, profonda, viscerale, sofferta, è una canzone che lascia scappare un’imprecazione, ognuna ha la sua, come a dire per esempio “vaccaboia che pezzo”. L’incipit è “Ognuno ha il suo tamburo/un solo ritmo un canto/della comune solitudine/che noi mettemmo insieme/ a starci un poco accanto/su questa via dell’abitudine”. Ognuno ha il suo tamburo che resta per sempre o forse no. Nel finale entra in scena “l’amico con le orecchie a punta”, chiaramente il suo cane, che non lo abbandonerà mai.

Il secondo disco si apre con “Noi no”, un inno collettivo contro le ingiustizie. Come a dire noi non abbassiamo la testa, noi lotteremo. Con il tempo, nel corso delle sue innumerevoli riproposizioni live, spontaneamente il brano ha avuto un’investitura come canto contro le mafie. Il testo è pregevolmente arricchito da alcuni giochi linguistici e fra questi “comete come te”, “sole di isole” “figli in prestito che presto cresceranno”.

Segue “Signora delle ore scure”, in cui il navigante Claudio descrive la bellezza travolgente ed esotica di una donna e nel testo, scritto in modo straordinario che riporta ad un’estetica poetica rara e incantevole, viene risaltata la bellezza della donna, l’evidente differenza di età, con lei molto più giovane dell’io narrante, il mistero di lei e la sfuggevolezza nel non poterla davvero raggiungere. I due versi che alludono all’azione di un rapporto sessuale “un flipper preso per i fianchi/a farsi coraggio e uomo” sono straordinari. A mio parere scrivere così è raggiungere un risultato difficile da eguagliare.

In “Navigando” si ripete l’evocazione del viaggio, in un mare che è mondo femminile. L’io narrante naviga i mari e si sente Ulisse, Simbad e Gilgames. Anche qui, come in “Le donne sono”, il testo è ironico, profondo e magistralmente scritto.

“Le mani e l’anima” è un pezzo straordinario per la ricerca di sonorità afro e tribali che fanno atterrare direttamente nel mondo africano, terra natia dell’umanità intera. Forti e chiari sono i collegamenti fra i paesaggi e il corpo, con immagini carnali, primitive e fisiche della natura vivente di assoluto effetto. I versi “piedi come granchi/che fuggirono maree/e scattarono le caviglie sulla rinoceronta terra/anima del mondo intero” rendono bene le atmosfera che ha voluto trasmettere. Il brano rende forte il senso del viaggio mistico e fisico con un chiaro riferimento allo stato di povertà e precarietà dei popoli del continente africano, di chi cerca altrove un riscatto che resta comunque precario e solo immaginato. E così Claudio canta “che vù campà”, “che vù parlà”, “che vù tornà”. Nel finale l’ospite di turno è Youssou N’Dour con i suoi vocalizzi che si fondano al timbro potente della musica.

Di “Mille giorni di te e di me” c’è ben poco da dire, se non che è forse davvero la prima canzone d’amore d’addio veramente vissuta in prima persona da Claudio, nonostante lui in precedenza ne avesse proposte tante, specie negli anni settanta. Si sente e arriva benissimo un grido di amarezza e disorientamento. La curiosità è che la base musicale, ovviamente senza arrangiamenti, è dei primi anni ottanta.

“Dov’è dov’è” apre la quarta facciata dell’intera opera discografica. Per quanto mi riguarda è uno dei pezzi meglio scritti, per non dire che è scritto in modo divino e insuperabile. All’interno la partecipazione di Oreste Lionello nella intro parlata con il chiaro riferimento alla notizie private di Claudio (presumibilmente alla separazione dalla moglie Paola Massari), date in pasto ai giornali scandalistici e non solo. “I paparazzi hanno tutti figli missili” è geniale in quanto i figli missili sono i successori dei papà razzi. L’io narrante fugge disperatamene da chi lo insegue e che vorrebbe sapere di lui, farlo confessare di un crimine d’affetto. Lui, il cantore di Questo piccolo grande amore, è messo alle strette e cerca riparo. “E la rossa russa ha mosso e io distratto aiò/il cavallo oltre la torre aiò/e la sua regina nera ha dato il matto/ al mio re che ancora se ne corre aiò aiò” è straordinario per citare 4 versi di un piccolo capolavoro. Nel ritornello di chiusura con le parole cantate e ripetute Cucaio aiò (aiò, aiò), che sono presenti anche nei versi centrali, Claudio inserisce per la prima volta anche Baiò Baiò che richiama al suo cognome in troncatura romanesca. Un piccolo aneddoto, che mi è stato passato da un mio contatto sardo, riferisce che probabilmente “aiò” deve essergli entrato in testa dopo una data live di “Assolo” a Sassari nel 1986, quando dopo il concerto, cenando in un ristorante, sentì dai camerieri il tipico intercalare sardo “ajò” che in dialetto vuol dire muoviti, dai, andiamo. Questa è ovviamente solo una ipotesi.

Segue “Tieni a mente” che è un brano quasi interamente strumentale al piano, con una melodia bellissima e struggente e le uniche parole cantate sono “Tienanmen Tienanmen Tienanmen tieni a mente”.

Il brano “Qui Dio non c’è”, marca un lamento senza rimedi per i mali del mondo e le sfacciate ombre che lo rendono amaro e ingiusto. In questo imbruttimento desolante dove Dio non c’è, anche il protagonista fa trasparire la sua sofferenza, con richiami alla sua attualità e all’infanzia, come a voler dire di un cronico male difficile da vincere e con il quale si convive. Anche questo pezzo è scritto in modo impareggiabile.

La “Piana dei cavalli bradi” è forse il pezzo che più amo dell’intero album ed il preludio preparatorio all’ultima traccia. Le sonorità e gli arrangiamenti sono straordinari, dove le percussioni risultano dominanti e segnano il ritmo imponente del brano. Per sua stessa confessione, l’ispirazione del pezzo viene dalle piane umbre (i genitori di Claudio erano umbri). Infatti in un intervista a Rai Radio 2 rivelò che la canzone ha origine da lì.

«L’Umbria me la sono sempre portata nel cuore e negli occhi, fino ad arrivare a Castelluccio […] che io conosco dal 1971; me lo fece conoscere Franco Zeffirelli, in occasione di una delle mie prime cantate […] di Francesco d’Assisi nel film “Fratello sole, sorella luna” […] ho cominciato a fare un pellegrinaggio […] e addirittura ad ispirarmi per una mia canzone che si chiama La piana dei cavalli bradi. E pensare che siamo tutti un po’ in attesa, come i cavalli nelle stalle, e che gli uomini e i cavalli in fondo si assomigliano, e il cavallo come l’uomo decide di sottomettersi, perché sente che c’è qualcosa alla quale non può dire di no. […] E l’occhio del cavallo, un po’ come la mente dell’uomo, contiene dei guizzi di follia e di irrequietezza.»

Il gioco linguistico in “sudai di sud/di vento diventai” è per me straordinario. Sono sempre stato affascinato dalle allitterazioni. Mi arrivano sempre come piccole creazioni destinate a restare.

Con il brano “Pace” si chiude l’album Kolossal capolavoro. Una pace intesa come approdo finale di ogni possibile interazione umana, in cui vi è il riconoscimento consapevole di essere esseri umani nella buona e nella cattiva sorte. Una pace che é parola del genere umano, perché, affinché ci sia pace, c’è bisogno dell’uomo. Il testo ha vette panoramiche di poesia. Vengono citate le conchiglie, gli stambecchi e le cicale nelIe prime composizioni melodiche distribuite in 4 versi, dove i soggetti, con molta originalità, compaiono solo alla fine dell’ultimo, per cui chi ascolta riesce a chiudere il cerchio del significato solo alla fine, rimanendo quindi per tutto il cantato in una sorta di sospensione magica. Poi ad un certo punto, nello schema del pezzo, alla quarta sezione dove ci si aspetta un altro elemento della natura animale, compare Virgilio, il poeta latino con questi versi.

“Virgilio cadde mentre era in volo sopra un prato/che le sue ali non si aprirono/guida di quei poeti che un giorno si smarrirono/lui sì che mi trattò da uomo e adesso è andato.

Qui vale la pena soffermarsi un po’ di più.

Io per anni non avevo chiuso completamente il cerchio di questo passaggio, o meglio avevo capito che si riferiva a Virgilio con la successiva parola poeta. E qui mi viene in soccorso Filippo Maria Caggiani nel suo “Oltre. Storia e analisi del capolavoro di Claudio Baglioni”.

Virgilio, autore dell’Eneide, fu guida di Dante nella Divina Commedia. Dante inizia la sua opera raccontando di essersi smarrito (mi ritrovai per una selva oscura/ché la diritta via era smarrita). E’ uno smarrimento morale nel quale si trova coinvolto oltre al poeta anche l’intera umanità. Per capire il verso “Virgilio cadde mentre era in volo sopra un prato, che le sue ali non si aprirono” occorre recuperare un passo dell’Inferno, al Canto IV in cui si legge “giugnemmo in un prato di fresca verdura”. Le anime sapienti del Limbo dimorano in un castello al centro di un grande prato. Oltre a Dante anche Omero e Virgilio avevano immaginato gli spiriti sapienti in un grande prato. “Cadde in volo sopra un prato” si riferisce probabilmente al fatto che Virgilio morì prima di riuscire a terminare l’Eneide. Io trovo tutto ciò straordinario, nel riconoscere che molti piccoli anfratti dell’album celano riferimenti culturali e filosofici così vivi. In Pace c’è chi si è giustamente avventurato nell’evidenziare il riferimento alle teorie di Friedrich Nietzsche sul concetto di “oltreuomo” che era, per il filosofo tedesco, l’immagine di un rinnovamento interiore.

Occorre infine aggiungere che nei live della canzone Virgilio è stato sostituito più semplicemente con la parola amico.

Nel primo giorno di commercializzazione si registrarono circa 200 mila copie vendute che salirono a circa 350 mila dopo una settimana e a circa mezzo milione in due settimane. Praticamente un boom! Ad oggi si contano poco meno di un milione di copie vendute. Considerando che è un disco doppio, il monumentale Album si inserisce al secondo posto per incassi nella storia discografica italiana, dopo “La vita è Adesso”. Oltre è anche l’unico album di Claudio Baglioni pubblicato in tutta l’Europa.

Il live successivo “Oltre una bellissima notte” tenutosi allo Stadio Flaminio il 3 luglio del 1991, fu il primo concerto nella storia della musica con l’artista al centro dello stadio. Il concerto fu premiato dalla rivista Billboard come miglior spettacolo dell’anno.

Con questo lavoro qualcuno disse che un disco di Baglioni è un’esperienza culturale. Una commissione di poeti e scrittori premiano Claudio per il verso con il più alto valore poetico: “sorpresi donne a sciogliersi i capelli come poterne sapere odore e gli altri peli”. Direi che sia questo e il brano è “Dagli il via”.

Alcune commenti che seguirono dopo l’uscita del disco.

Ecco un compositore di canzoni che non si è mai standardizzato. Sempre coerente, mai schiavo dei vizi che falsificano l’eventuale originalità che una canzone di buon livello deve avere (Ennio Morricone).

E diciamo subito che siamo ai massimi livelli della produzione discografica (critico musicale Gino Castaldo).

Merita tutta l’attenzione che compete alla sua complessità e alla sua qualità, questo disco stregante (Romana Cesare).

Un disco che da molti è ritenuto un capolavoro nella storia della canzone italiana (Filippo Maria Caggiani).

Mi viene da ridere pensare a quelli che sostengono che Baglioni canti solo esclusivamente quelle canzoni lì. L’ignoranza fa dire cose stupide. Può piacere oppure no. Questo è giusto. Del resto ci si lega per assonanza, empatia, convergenza nel sentire e nel riconoscere qualcosa di noi in altri. Ma una cosa non è opinabile. La cifra artistica di Claudio è ai massimi livelli, cioè siamo lassù nell’Olimpo della musica di casa nostra. Non solo per la sua storia musicale e artistica. Ma anche perché si è di fronte ad un artista che ha creato canzoni con la massima sincerità e serietà, sfruttando un talento immenso. E anche perché è uno dei pochi che ha saputo nel tempo rinnovarsi in parallelo alla sua crescita di uomo, dove altri invece hanno proceduto campando sull’eredità dei primi successi. Il meglio, a mio modo di vedere, Claudio lo ha dato dagli anni ottanta sino al duemila, dopo il clamoroso successo degli anni settanta nel Baglioni prima maniera. Dai 30 ai 50 anni ha prodotto il meglio di sé. Che è il periodo della vita in cui si nelle più alte capacità di condensare le sostanze delle proprie esperienze e dei proprio percorsi. Di essere brillantemente agitati, di avventurarsi per cercare e scoprire e perché no di andare oltre. La parola oltre implica una scelta e che d’altra parte c’è qualcosa. E per andare oltre, raccontarsi è fondamentale. In silenzio, con un libro, magari con un disco. Secondo me non è un caso che questo Album si collochi al centro di quel periodo.

Il 17 novembre 1990. Io avevo poco più di 26 anni e me ne stavo seduto su una comune sedia nel soggiorno di casa ad ascoltare un Kolossal discografico dentro una cuffia minimale che però svolgeva il suo ruolo dignitosamente. Fu fonte di ispirazione negli anni, punto di riferimento, caposaldo del crescere secondo una definita propensione. Anche oggi per me è così e così gli dico un colossale GRAZIE.

Non sapevo che quella data sarebbe stata lo spartitempo fra l’antecedente avanti Oltre e il seguente dopo Oltre. Prima di me e dopo me. Ed oggi, a pensarci bene, è passato un bel po’ di tempo. Siamo a circa 32 anni e spiccioli d.O. Tanto tempo. Ma questo disco resta attualissimo. E’ un disco moderno, rivoluzionario, epico. Da ascoltare, riascoltare come a dire ricominciare. Senza fermarsi mai.

Cesare Sandoni

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The Godfather

The Godfather [Il Padrino] - Dietro questo nickname si cela il nostro fondatore e amministratore unico TONY ASSANTE, più grigio ma MAI domo. Il logo (lo chiedono in molti) è il simbolo dei FANS di Elvis Presley (Cercate il significato in rete).

3 Commenti

  1. Oltre rimarrà per sempre l’Opera con la maiuscola di Claudio Baglioni.Nel titolo c’è già tutto “Oltre” ed il disco che più di ogni altro lo rappresenta come uomo,artista e poeta.Se si vuole conoscere Claudio è in OLTRE che si fa conoscere fino in fondo per arrivare alla sua anima.Io avevo 28 anni quando uscì , era uno dei periodi più dolorosi della mia vita,nel mese di febbraio mia madre ci lascerà per sempre .Il disco Oltre mi accompagnerà in quei mesi difficili entrando definitivamente nella vita adulta anche se da figlia 3 anni prima ero diventata mamma.La canzone che il mio cuore ha scelto è :Acquadallaluna e solo dopo anni ho capito che poteva essere solo quella .Se si ascolta con attenzione si comprende nel profondo chi è Claudio come figlio,padre,uomo e artista.Che altro potrei dire su Oltre che non è già stato detto in modo più esaustivo di quello che potrei io.Da parte mia posso aggiungere solo Grazie il dopo Oltre e già noto a tutti. Mary-Maria

  2. Concordo appieno con quanto scritto e lo definirei un bell ADD ON al libro “Oltre” che ho avuto il piacere di leggere e gustare in tutte le sue ricche sfumature. Unico commento ” veniale ” su Tamburi lontani ( capolavoro assoluto) dove non si tratta di Organo ma di sezione Horn peraltro magistralmente condotta dal grande Celso Valli ♥

  3. Che io gli preferisca la vita è adesso conta quel che conta , finalmente un critica musicale come Dio comanda . Bella lì .Un Saluto a Tutti .

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