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Canzone, vendite e operazioni commerciali

Quante volte, parlando di musica, ci è capitato di definire un prodotto “operazione commerciale” in senso puramente dispregiativo? Nel caso del nostro Claudio, questo epiteto è stato utilizzato spesso parlando del progetto Q.P.G.A., definito da molti “commerciale” per antonomasia, ma anche per quasi tutta la produzione degli ultimi vent’anni del Nostro.

Vorrei a tal proposito riflettere sul rapporto che esiste fra queste cosiddette e presunte operazioni commerciali, le vendite dei prodotti e la forma-canzone (e tutto il suo mondo), proprio perché in questi giorni la polemica è tornata in auge fra chi si occupa del settore canzone (anche se, ad essere sinceri, una tal polemica torna di moda ciclicamente), ed è tornata in pompa più che mai perché ha coinvolto il cantautore per definizione più anti-commerciale che esista: Francesco Guccini. Già, proprio quel Guccini che nel 1976, poco dopo l’esplosione del fenomeno del cantautorato (e la sua affermazione a livello quantomeno nazionale) scrisse: «Colleghi cantautori, eletta schiera, / che si vende alla sera per un po’ di milioni / voi che siete capaci fate bene / a aver le tasche piene e non solo i coglioni». Il cantautore emiliano si lanciava in una vera e propria invettiva che non risparmiava neanche quei colleghi che erano preoccupati troppo di far soldi e, di conseguenza, meno dell’arte di far canzone, proprio laddove la canzone d’autore si era affermata come canzone “reale”, vera e autentica, contrapposta invece alla finzione della canzonetta e della canzone del Primo Novecento (e, ovviamente, anche della canzone del Festival di Sanremo). Guccini, dopo essersi ritirato dalle scene musicali nel 2013, con la pubblicazione dell’ultimo album e con gli ultimi concerti (fece eccezione soltanto una partecipazione, di poco successiva, ad un concerto per l’Emilia), nel 2018 era tornato inaspettatamente a cantare duettando con il vecchio amico e collega Roberto Vecchioni nel brano Ti insegnerò a volare, singolo di lancio dell’ultimo album del professore, Infinito (2018); la vera sorpresa tuttavia arriva nel 2019: spunta un nuovo brano, non solo scritto da Guccini (le parole, la musica è nuova ed è di Mauro Pagani), ma pure da lui cantato, Natale a Pavana, inserito a sorpresa come singolo di lancio di un progetto discografico curato da BMG e spalmato su due album, che vede una serie di altri artisti interpretare brani di Guccini, progetto per altro osservato da lontano da Guccini stesso, e coordinato e realizzato in accordocon Mauro Pagani, ex violinista Pfm, collaboratore storico di Fabrizio De André prima e di Ligabue poi, nonché per anni direttore artistico del Festival di Sanremo.

Già nella biografia di Pagani è contenuta tutta la contraddizione in termini della questione della commercialità, ma proviamo ad andare più a fondo. I fan di Guccini su facebook (perché, almeno per una volta, non tiro le orecchie ai baglioniani che, in questi casi, non sono tanto diversi da altri fan di altri artisti – forse che il “problema” sono proprio i fan in generale???) inneggiano allo scandalo per l’operazione commerciale, anzi, in molti commentano sostenendo che “non è possibile che Guccini abbia approvato questo progetto”; non mancano infine i puristi (“solo Guccini può cantare le sue canzoni”) o perfino i malfidenti (“sicuramente Guccini è rincoglionito e diventato vecchio, anni fa non avrebbe mai accettato qualcosa del genere”), e ovviamente non mancano neanche i fedeli ciechi (“se l’ha fatto il Maestro, compro il cd: l’operazione va bene se ha il suo imprimatur”). Polemiche che noi, fan di Claudio, conosciamo bene: lascio a voi la parafrasi e l’adattamento di queste frasi alla nostra situazione.

Queste polemiche a mio parere distolgono l’attenzione dal punto cruciale, anzi, dai due punti cruciali della questione:

  • Il prodotto è un prodotto autoriale/d’autore?
  • Il prodotto (la canzone/l’album) è bello, indipendentemente dal fatto che sia d’autore o meno?

Queste due questioni sono INDIPENDENTI dal fatto che l’operazione sia commerciale o meno, anche perché OGNI OPERAZIONE FATTA PER VENDERE (e con la musica ci campano sia cantanti che cantautori) è commerciale. Il punto è, appunto, al massimo capire se l’operazione è fatta SOLO per vendere, o se dietro vi è comunque un progetto d’autore, di qualunque tipo, e se il prodotto (ANCHE se è fatto per vendere, SOLO o non solo) è bello/ben fatto. Ci sono tantissime canzoni d’autore fatte male, così come ci sono un sacco di canzoni fatte SOLO per vendere, in cui l’autore è un mero, artificioso e artificiale assemblatore di note e parole, fatte molto bene e molto belle. Emblematico è il caso di Battisti-Mogol, per anni NON considerati come cantautori, ma ora, dopo un periodo di rivisitazione critica, sono finalmente (quasi all’unanimità – qui la morte di Battisti ha dato indubbiamente la svolta definitiva sulla questione) come cantautori, o, meglio, come un’unica entità cantautoreale.

Questo discorso vale anche per il nostro Claudio, anche se la sua redenzione pare non ancora completamente terminata (ne ho parlato qualche tempo fa in questo articolo “Scarica i sue articoli in PDF 0102) ; certo, gli ultimi vent’anni hanno seriamente rimesso in discussione la produzione di Baglioni e la sua etichetta di “cantautore”, proprio perché queste ultime operazioni sono state definite “commerciali”.

Vorrei riportare a tal proposito la riflessione di Gianni Canova, che molti di voi conosceranno per essere il Cinemaniaco di Sky, ma in realtà è uno degli intellettuali a mio parere più fini della nostra contemporaneità (è rettore dello Iulm, dove insegna Storia e critica del cinema), uno dei pochi che è riuscito a cogliere l’essenza della cultura contemporanea con categorie “nuove” (leggete a tal proposito i suoi saggi sui Cinepanettoni o su Checco Zalone, fenomeni normalmente etichettati come “commerciali”).

Canova, nel suo ultimo lavoro, scrive così:

«Voglio interrogarmi sul perché l’epiteto “commerciale” in tanta parte del pubblico italiano (e tra i giovani in particolare) sia percepito come un insulto. O, nel migliore dei casi, come un’onta, o una vergogna. È un sintomo rivelatore: siamo un paese che non ha mai accettato fino in fondo l’idea di industria culturale […]. Che l’arte e la cultura siano considerati anche merci continua a essere considerato con orrore da gran parte dell’establishment culturale, soprattutto da quello che maschera con una patina di ostentato progressismo il proprio intimo, atavico, profondo e ontologico progressismo».

Nessun artista che lavora nella musica (o, seguendo Canova, nel cinema) è totalmente LONTANO da dinamiche commerciali. Lo stesso Guccini, nel 1979, ammetteva che «ogni disco è di per sé un’operazione commerciale, altrimenti un disco non verrebbe fatto […], soprattutto i dischi di canzoni; quando la canzone entra nel disco è un fatto commerciale». Parole che fanno riflettere, soprattutto perché sono scritte dall’autore de L’avvelenata, e soprattutto, pensando a tanti suoi estimatori, o soprattutto a tutti coloro che tirano Guccini per la giacchetta, difendano e ostentano l’anticommercialità di una certa produzione musicale come sinonimo di qualità.

Oggi il discorso va esteso e non incentrato più sul disco: possiamo parlare del web (d’altronde si guadagna anche su youtube), delle piattaforme (spotify e itunes su tutte), dei concerti (e chi fa musica nei locali sa benissimo a quali compromessi bisogna scendere pur di guadagnare due soldi) e via dicendo. Questo perché la canzone appartiene all’industria culturale, che si voglia o meno.

Per cui, in conclusione, etichettare le ultime produzioni di Claudio come brutte perché troppo commerciali credo non abbia senso. Rispondendo a quanti hanno scritto al mio articolo della scorsa settimana, dicendo che la ricerca artistica di Baglioni si è fermata al 1999, da un lato sono anche d’accordo, ma è un discorso diverso ed è legato non alla commercializzazione dei prodotti, ma ad alcune scelte artistiche del cantautore. Insomma, è bene stare attenti quando si parla di canzone e nello stesso tempo di vendite e di operazioni commerciali: il mio consiglio è quello di non tirare per la giacchetta la questione della commercializzazione, ma di concentrarsi solo e soltanto sulla musica, con la consapevolezza che ogni volta che la canzone viene data in pasto ad un pubblico, lo si fa (ANCHE) per venderla e (ANCHE) per guadagnarci dei soldi. Questo, certo, non basta, ma non è detto che l’artisticità ne venga compromessa.

Luca

Luca Bertoloni

Nato a Pavia nel 1987, professore di Lettere presso le scuole medie e superiori, maestro di scuola materna di musica e teatro e educatore presso gli oratori; svolge attività di ricerca scientifica in ambito linguistico, sociolinguistico, semiotico e mediologico; suona nel gruppo pop pavese Fuori Target, per cui scrive i brani e cura gli arrangiamenti, e coordina sempre a Pavia la compagnia teatrale amatoriale I Balabiut; è inoltre volontario presso l’oratorio Santa Maria di Caravaggio (Pv), dove svolge diverse attività che spaziano dal coro all’animazione.

5 Commenti

  1. “è commerciale” nasce nei primi anni 70 da quelle personalità finto intellettuali che si facevano piacere a forza musica di nicchia. Se non ascoltavi Guccini o Lolli eri un mezzo sfigato. Per denigrare Baglioni lo etichettarono come il cantante dell’amore. Decisi presto di non seguire più certi fenomeni. La RCA era un ministero che pretendeva il “prodotto” e a tal proposito ti affidavano a un tutor, ergo, dovevi rispondere anche a certe richieste se volevi che qualcuno ti ascoltasse. Io stesso mi scontrai con il mio capo alla Baby Records per gli stessi motivi…

  2. credo che le vendite siano importanti perché determinano il successo di un artista e claudio sotto questo punto di vista è uno dei migliori ma c’è anche da considerare quello che trasmette attraverso la sua musica voglio dire il contenuto con cui l’artista vuole comunicare qualcosa a chi l’ho ascolta e claudio ci riesce molto bene complimenti a lui e a tutti noi che l’ho seguiamo.

  3. Concordo con quello che dice Canova. Anche la Gioconda di Leonardo o il Teorema di Pitagora sono stati fenomeni commerciali. Per “purismo” intendo sempre la contrazione delle parole “puro snobismo”. Guccini sbagliò (amabilmente) a scrivere quell’invettiva così dura. Sbagliò (per quanto fosse un gran pezzo) anche Finardi in “Musica Ribelle” (“e le strofe languide di tutti quei cantanti / con le facce da bambini e con i loro cuori infranti” molto probabilmente da ricondursi allo stesso Claudio o comunque al suo genere). E sbagliò, sempre in grande stile, anche Bennato (“gli impresari di partito mi hanno fatto un altro invito…” ecc, salvo poi stra-vendersi alle “Notti Magiche” e alla pubblicità della Tim. Era opportuno essere più prudenti con i purismi. Tutti suonano “come se facessero una serenata sotto ad un’ideale finestra, sperando che questa possa aprirsi e possa uscire qualcuno ad ascoltarla”. (questa frase è di Claudio) . Qualcuno che, possibilmente, paghi. (questo lo aggiungo io).

    1. Ciao, ti ringrazio di questa risposta e di questa riflessione.
      Gli errori che tu imputi a Guccini, Finardi e Bennato sono da contestualizzare in quegli anni: Musica ribelle e L’avvelenata sono del 1976, mentre Sono solo canzonette è del 1980. è nella seconda metà degli Settanta che si sviluppa questo concetto di commercialità contrapposta alla canzone d’autore (almeno in Italia), per cui, più che errori, contestualizzerei questi versi in quegli anni di fervida polemica. Ora, con raziocinio, si può guardare a quelle invettive come tali, ma accorgendosi che, appunto, la musica è anche commercio. E ci sono passati tutti, Bennato, Finardi e Guccini (lo stesso Guccini che ora fa lo scrittore, ma che pubblica i libri per un colosso, la Giunti). Per cui, sottoscrivo anche io la frase di Claudio, e anche la tua aggiunta! Anzi, la frase di Claudio è fondamentale: senza qualcuno che ascolta (o che guarda un film o che legge un libro), l’arte non può esistere; l’arte non è solo un prodotto, ma si genera proprio nel rapporto fra prodotto e fruitore. Grazie per questo bell’intervento!

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