Fatto il salto si trova davanti alla colpa di tutto il tempo, di tutti quanti i vizi testardi degli altri uomini. E pensa che mai ha avuto la forza necessaria per lanciare sassate e riempire ogni suo spazio vuoto. Poi è d’improvviso, dopo tante tracce false, che si ritrova in mezzo a qualcosa di umanamente difficile da immaginare. E vede occhi che sprizzano illuminazione, decine di piccole stelle messe a terra, e innumerabili dita che sfumano l’aria per mantenere la vita. E poi cento schiene di seta che cercano di alzarsi verso l’avvenire. Ed eccolo ancora, rianimarsi dopo un’ultima pioggia, mentre cerca un drago un sacrario un fiore o un rintocco sonoro che lo faccia per davvero fuggire; mentre pensa che anche lui potrebbe vivere un milione di anni e anche più, che in fondo la vita non è altro che meraviglia, che la luna potrebbe diventare un frutto che si sfrange, mentre tutti quanti rimangono lì sotto ad aspettare un qualsiasi suo tremore.
Lo abbiamo sentito dire: “baciami un poco non guastare questo momento irraggiungibile dalla morte e non guardarti intorno non dirmi che cosa hai immaginato per farmi diventare un pesce che si ravviva. E ancora dire che ha deciso di aprire la porta all’amaro della notte, che ha pensato a come avrebbe potuto far addensare l’aria intorno alla sua tristezza. E che avrebbe voluto fare una capriola dentro tutta quanta la sua infanzia, per poi essere il rovescio dell’estate dei giorni più caldi, di quelli più freddi, della pace del dolore messi insieme dentro ai ginestroni.
Lui vuole essere ricordato come l’uomo che ha fatto il salto senza sapere che non l’avrebbe scampata: quello che ha lasciato i suoi fianchi e anche tutta la sua pelle per terra, da rammendare.
Quello che ha permesso si scatenasse una furiosa sparatoria contro il futuro, contro se stesso, mentre attorno crollava ogni sua speranza di essere ancora amato. Il salto è stato per lui un esperimento per capire come far impazzire il cuore, come lasciare indietro le labbra, per poi ripetere che ogni fine è una barbarie, che si muore senza resistenza, che ci si potrebbe catapultare nel cielo e allora sarebbe perfino più facile far slacciare i cuori i bottoni, togliere in questo modo i truci incantesimi al domani, e decidere di smetterla quando è davvero tanta la pena d’amore, e comprendere che, quando ci si lascia qualcosa alle spalle, è meglio non girarsi.
Quel salto gli ha ricordato che, quando inizia il declino, si diventa inseguitore e inseguito, e che il petto tende a urlare e si abbassano i veli e lei diventa un’amante rosata una passione in grado di avvolgere il mondo intero.
Quell’uomo ormai non guarda più i suoi capelli le sue mani, cade di traverso sul divano e neanche pensa al tempo sprecato, crede che tutte le parole siano sufficientemente colorate e che in fondo gli bastano. Neanche si accorge di avere il viso in liquefazione, di avere negli occhi la sevizia, lui crede di esserci in ognuna delle piastrelle figurate che ha in cucina. Non sa che gli basterebbe uscire da quel baratro, da quelle sue ascelle sudaticce, per ritrovare la sua donna dentro a una felicità e poterle dire ho appena avuto l’ultimo dolore, mi è rimasta la lingua nera, ma tu non rassomigli a nessuna.
Non si perderebbe nell’inganno di quando pensava di essere diventato invincibile e di poter avere la rete sempre piena di prede.
Quell’uomo non sa neanche che è all’improvviso che smettono i venti e l’amore, e si viene lacerati dalle spade, e ci si arrotola nelle acque della disperazione, e si sbatte da una parte all’altra come tra le scogliere. È così che la vita può inaspettatamente andare in fumo, e l’anima diventare oppressa senza fiato: capita quando si ha un cuore aperto come un lago e una irrefrenabile voglia di essere buono. È per questo che la realtà diventa terribile e allora è necessario cercare un cielo che possa aprirsi, dove chiunque si possa riconoscere in un qualsiasi battito.
Quell’uomo non sa che qui sotto fanno paura tutti quegli aghi che stanno mettendo nello spirito del mondo, tutti quei tubi che ci fanno essere un popolo di animali; quei grammi di sperma che dobbiamo lasciare nel letto per le donne che saranno spugne senza un travaglio, bambole che non prenderanno le loro cose quando sarà finita. Che si potranno accendere spegnere caricare sulle spalle come cartocci. Non sa che l’essere umano è rimasto malato e vive come si aspettasse una ricompensa, che abita un cuore che non è neanche tutto suo. Che è diventato tutti gli embrioni, tutte le miserie, tutte le corruzioni.
Fino a quando qualcuno non ha iniziato a fare clamore e a forgiare un’arma nel suo pugno, e senza più una bussola si è riversato per strada, urlando una sommossa proletaria, diventando un perno di quel tumulto. Quell’uomo non sospettava potesse accadere qualcosa di così corale che non ci fosse nessuno in ritardo in quella contestazione che valeva il sogno. Ha capito che, quando la gente esulta, tutto è abbagliante, la gioventù diventa goliardica ed è facile farsi passare qualsiasi dispiacere, e la vita nasce nuova e di verde speranza, e vengono fuori gli invisibili le anime belle che vanno oltre il tempo. Che c’è comunione e gli incontri diventano memoria, futuro, amori immortali; diventano acqua lenta che scortica le pietre.
Quell’uomo cerca la salvezza, di perdere i giorni bugiardi che non gli danno più né gioia né dolore, e come un fiore esile si mette controvento, a rischio, e tende le braccia chiedendo un modo per farsi amare, un paradiso, un’eternità in cui si possa risorgere. E allora vuole testimoniare la sua presenza, il suo ritorno dopo le delusioni, dopo l’ultima dittatura che ha dovuto subire. E si mette a capofitto come una radice nell’aria pronta a una nuova speciale fioritura. Anche se lo sa che l’amore è una bandiera perfettamente nuda, solitaria e poche volte stellata. Che molto spesso ci si impiglia nell’abbandono, che di tutta la luce che si ha quasi sempre rimane solo lo stoppino.
Quell’uomo si era già perduto nelle voci dei mercatari, nelle baldorie dei clacson, in tutte quelle sensazioni disperse tra le bancarelle, in un tradimento in un giorno senza soccorso.
Poi quel figlio come una mandorla acerba, ed è iniziare ad accendere le candeline spente, è semplicemente un domani, è capire cosa fare della propria vita, è stare allegri, uscire da sottocoperta, saltare dentro alla tempesta, prendere tutto il tempo al volo: un figlio è uno sciame bellissimo di paura. Quando lui lo pensò era davvero felice.
E ancora l’amore che lo tormenta, e lui ha paura che le sue mani possano diventare calamite e che lui possa perdere quelle labbra da baciare, che vorrebbe stare nel niente e nel tutto e allora vorrebbe cancellare i suoi passi, poi penetrarle ancora nel cuore. L’amore, lo continua a dire, è una rosa selvatica, è un affare pieno di demoni, è certo che il cuore debba soffrire. L’amore è un’astrazione piena di tenebre, non ha neanche una pietà, un’umana grazia.
Quell’uomo aveva così capito che tutto è un artificio, che non avrebbe più aspettato di morire, che non sarebbe rimasto in quella stanza in quel qualsiasi piano, in mezzo a quei cumuli di bugie, che non avrebbe più pensato alla bella fiaba che lei era. Avrebbe cercato un altro luogo, mille altre lingue, qualche altra ragione. Aveva capito che la vita ha una pressione ingiustificata, perché ti fa pensare a un domani implacabile, e non ti dice che a ogni tuo passo hai un braccio intorno ai fianchi, che non devi gettare nessun dado per capire cosa avrai nel futuro che ci potrebbe essere un assoluto niente, e nessun residuo da vivere, che noi altro non si è che quell’istante.
A tuttocuore è fatto di filosofia, di corpi che d’improvviso fuggono per poi tornare: è una storia di desideri e di un divenire necessario.
Quando sulla scena appare una figura non sai cosa Giuliano Peparini abbia escogitato, lo guardi e lui sembra dirti tra signori intelligenti dovrebbe essere chiaro. Ma io che guardo le scene non so, di quell’enorme profonda bellezza, cosa aspettarmi.
Claudio è una foglia di luce, e sa di non appartenere ad altro.
Michele Caccamo per huffingtonpost.it
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